Da che mondo è mondo gli esseri umani hanno sempre avuto a che fare con leggi, prescrizioni, regole, norme, divieti… alcune prodotte proprio dai vari legislatori, altre a fatica dedotte dalla osservazione della natura. Da che mondo è mondo parimenti gli esseri umani hanno sempre tenuto in gran conto il rispetto di tali leggi, specialmente di quelle riconosciute universalmente come “naturali”. A tal punto che l’ignoranza incolpevole o la trasgressione intenzionale delle medesime arriva a far dire ad una studiosa della psiche umana (Anna Terruwe) quanto segue: “Mentre Dio perdona sempre e l’uomo perdona qualche volta, la natura non perdona mai; quando ci si oppone alla natura, la natura disapprova, ribatte, restituisce il colpo”. Come pure, da un certo momento in poi, gli esseri umani hanno piano piano riconosciuto la necessità di dare più attenzione allo “spirito” della legge che non alla sua “lettera”. E, guarda caso, questa scoperta è stata evidenziata con la venuta di Gesù Cristo che quanto a “Spirito” aveva esperienza diretta personale. Addirittura verrà scritto da Paolo l’apostolo: “La lettera uccide, lo spirito vivifica”-
E sembra essere proprio questa, tra le tante altre possibili sollecitazioni spirituali offerte dall’episodio narrato da Luca, la dritta per orientarci come Dio comanda nella selva di leggi e prescrizioni… E’ bello infatti notare (e mettere a confronto) la ossequiosa e puntuale osservanza delle prescrizioni mosaiche da parte di Maria e Giuseppe da una parte, e dall’altra la altrettanto puntuale e rispettosa irruzione delle Spirito nel bel mezzo di tale “osservanza” delle medesime prescrizioni. C’è da osservare che già avevano fatto esperienza, i due giovani coniugi, di tale modo di agire da parte dello Spirito, tuttavia vengono descritti come “stupiti” per quello che stavano vivendo. Ed è anche curioso notare come siano proprio due “anziani” (avanti negli anni, ma non vecchi…), dei quali si danno notizie precisissime quasi a voler sottolineare la veridicità assoluta degli accadimenti, ad essere ambasciatori di questo “Spirito”: il santo vecchio Simeone al quale lo Spirito aveva preannunciato che non sarebbe morto prima di aver visto il Salvatore e che quel giorno “mosso dallo Spirito” si recò al Tempio e l’anziana Anna, figlia di Fanuele, di 84 anni e vedova dopo soli 7 anni di matrimonio che “sopraggiunta in quel momento si unì a loro a lodare Dio”. Stupisce e lascia a bocca aperta che siano proprio due anziani i rivelatori di questa filigrana spirituale possibile a venire visualizzata solamente osservando in controluce l’intreccio misterioso di eventi umani normalissimi…
E poi… ognuno a casa sua e l’evangelista Luca liquida il problema educativo, lungo circa trent’anni in quel di Nazaret, con quella magistrale pennellata: “E Gesù cresceva e si fortificava pieno di sapienza e la grazia di Dio era con lui”. Come a far capire che il “problema educativo” della crescita dei figli diventa irrisolvibile… se non si asseconda la legge dello scorrimento fisiologico della linfa spirituale nell’intreccio degli eventi.
Fin troppo facile dedurre il da farsi per noi uomini e donne di oggi: dare spazio e importanza nel proprio percorso spirituale alla azione soave dello Spirito, andare oltre la pura e semplice osservanza (talvolta maniacale…) di regole, tempi e modi quasi assimilabile ad una azione liturgica laica e asettica. Ma tutto ciò non avviene per sforzo etico o ascetico, ma per grazia, quella grazia, da chiedere ogni giorno, di saper discernere tra il frastuono del rumoroso fluire degli eventi il sussurro del silenzio di Dio, di saper discernere nella penombra del tempo uno squarcio d’eternità, la grazia di una saggezza spirituale senza età, la grazia di una gioiosità spirituale… consapevoli magari che tra le caratteristiche nascoste dell’agire dello Spirito c’è anche quella dell’ essere “spiritoso”, quello Spirito che dentro la nostra anima incessantemente chiama in causa il Padre da lodare e ringraziare per ogni cosa. Il che suggerisce di concludere parafrasando un noto proverbio per la salute del corpo, qui riciclato per la “salvezza” dell’anima: “Un Padre nostro al giorno toglie il maligno di torno”.
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Commento al vangelo del 2 febbraio 2014
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COMMENTO OMILETICO DEL 25 AGOSTO (Lc. 13, 22 . 30)
Capita talvolta di imbattersi in persone che accampano dei diritti, che millantano crediti, che pretendono trattamenti di preferenza in ragione di questa o quella appartenenza o di questo o quel titolo. Sono persone che a lungo andare finiscono per irritare e suscitare antipatia. Sono quelle persone che talvolta se ne escono con quella spocchiosa espressione: “Lei non sa chi sono io!” alla quale si potrebbe ironicamente ribattere: “Me lo dica”… ma l’ironia risulta indigesta a certe persone. Più pungente sul piano dialettico potrebbe essere invece quest’ altro tipo di risposta: “Ma chi si crede di essere”? Comunque la si voglia mettere, questo atteggiamento di supervalutazione di sé contraddice in pieno la regola universale dell’uguaglianza e dell’equilibrio delle relazioni interpersonali gravandole di un errore genetico (quasi una sorta di peccato originale laico). L’errore genetico sta proprio nella tendenza a impostare e vivere i rapporti in termini di diritti-doveri dove è sempre l’altro però ad avere dei doveri nei nostri riguardi…
Addirittura da matti avere tale atteggiamento nei riguardi di Dio! E’ come se gli si dicesse: Siccome osservo i tuoi comandamenti, osservo le regole, pago le tasse, non manco mai alle funzioni, partecipo a tutti i riti… ho diritto alla salvezza (e tu me la devi dare). A ben considerare è la medesima perversa logica del mercimonio, del meretricio dove uno “paga” e l’altro “deve” dare la prestazione… C’è da continuare, oppure è sufficiente questa considerazione per non impressionarsi di fronte alla risposta di Gesù a quel tale chi gli chiedeva: “Ma alloro, pochi si salvano”?
E sembra essere proprio questo, infatti, l’insegnamento di Gesù riportato da Luca. Un insegnamento che, come sovente succedeva, prende il via, curiosamente parlando, per strada, “mentre era in cammino verso Gerusalemme” e prende il via da una domanda abbastanza strana e sconsolata di quel “tale”, domanda che così formulata fa supporre qualche “insegnamento” precedente… A questa domanda Gesù risponde quasi seccato con una serie di “avvertimenti” tali da spaventare: “State attenti che se pretendete o credete di salvarvi solo per la vostra bella faccia di appartenenti alla razza ebraica o alla vostra pedissequa osservanza formale di regole e prescrizioni o di andare in paradiso in carrozza sarete sonoramente delusi e avrete dei guai seri, anzi…”. Tremano i polsi a sentire il “mite” Gesù trattare così i suoi concittadini e seguaci e continuano a tremare quando lo si sente descrivere il comportamento del Padrone di casa nei riguardi di questi “pretenziosi di salvezza”: “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori comincerete a bussare alla porta (…). Ma Egli dichiarerà: vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità (…)”. E poi conclude con un riferimento al concetto di “chiamata universale alla salvezza” , come dire di non meravigliarsi (scandalizzarsi, ingelosirsi…) se Dio aprirà le porte della salvezza a tutti (la porta della fede?). E’ proprio vero che “Dio delude sempre chi se lo immagina a modo suo”, ma è anche vero e proficuo per il proprio cammino verso la salvezza andare al fondo di questa “delusione” per rimuovere il pensiero (l’dea di Dio che ci si è fatta…) che la alimenta. Ma per far questo occorre domandar grazia a Colui che nella Trinità è lo specialista per tali “chiarimenti di idee”… E sappiamo bene chi è.
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COMMENTO OMILETICO
COMMENTO OMILETICO (Santa Trinità, Gv.16, 12 – 15)
Risulta difficile trovare situazioni concrete dell’esistenza dalle quali partire per “meditare” su questo brano di vangelo allo scopo di trarne qualche dritta per migliorare lo stato di salute dell’anima… momentaneamente in libera uscita dall’eternità. Difficile cioè trovare delle analogie tra la situazione descritta da Giovanni evangelista (Gesù alle prese con l’addio dai suoi…) e una qualsiasi altra dinamica della vita terrena simile a questa. A meno che non si prenda in blocco tutto il brano (così ci suggerisce l’intelligente liturgia della Chiesa Madre e Maestra), non a caso collocato a fine ciclo dell’avventura terrena di Gesù, e non lo si legga in chiave di metafora esplicativa della totalità e integralità del mistero cosmico della vita che non è fatta di “passato, presente e futuro”, ma di dimensione “altra”… di eternità. Ma è proprio questa difficoltà a trovare analogie, a disvelare qualcosa e a fornire la cura per le inquietudini dell’anima e per le ansietà croniche che la prendono alla gola. E questa cura, questo “qualcosa” è paradossalmente “Qualcuno”, anzi “Qualcuno Trino”. E’ la Trinità, la Trinità da sempre in cerca di compagnia con l’essere umano e per questo capace di far contattare Tempo e Eternità sul palcoscenico del Presente. Palcoscenico sul quale si sono avvicendati, si avvicendano e si avvicenderanno a turni il Creatore (che avrà modo di rivelare piano piano alla sua creatura di essere Lui il Padre), il Salvatore (che ha avuto modo di rivelare di essere Figlio Unigenito e Preferito e Ubbidientissimo del Padre) e lo Spirito Santo a cui spetta il lavoro di Santificazione (rifinitura?). Il tutto però in perfetta armonia e condivisione del progetto d’insieme. Le medesime scienze sociologiche hanno “scoperto” che per un buon funzionamento di un gruppo servono essenzialmente “fiducia reciproca” e “condivisione chiara degli obiettivi”… se no non si va da nessuna parte!
A leggere e rileggere questo brano di Giovanni si nota un Gesù teso a rassicurare i suoi, a tonificare i muscoli dell’anima, a sostenere e rinvigorire gli animi in vista dello stress emotivo e spirituale dello sconforto che avrebbero dovuto subire di lì a poco. Si avverte un Gesù quasi in difficoltà a farsi capire da gente non in possesso del decoder “eternità”, codice invece posseduto ed esperimentato da Gesù. Ecco allora che Gesù mette le mani avanti chiamando in scena lo Spirito che “vi spiegherà piano piano tutto… anche le cose future…”. Sembrerebbe sentirlo dire: “Lo spirito Santo è più bravo di me” e invece no, perché subito dopo torna a bomba riconoscendo che sarà proprio Lui a “glorificarmi”, con il sorridente beneplacito del Padre… Proprio una bella famiglia, la famiglia trinitaria. Non c’era altro modo di far capire a chi non possedeva il codice “eternità” che divisione di ruoli non significa competitività o altro, che stare insieme non significa “però ognuno per i fatti suoi”, che Trinità non è spartizione di potere, ma condivisione di un progetto d’Amore. Non c’era altro modo di far capire che non si può capire tutto fintantoché tutto è ancora in fieri, ma di stare comunque sereni perché tutto è nelle mani di Dio: passato (creazione), presente (Redenzione). Futuro (santificazione). Non c’era altro modo di far intuire cosa fosse Trinità (mistero integrale) a chi a malapena aveva esperienza di un frammento di mistero… “rispecchiato confusamente” direbbe san Paolo, dallo specchio del tempo. Sarebbe come voler fare esperienza di matrimonio senza volervi entrare (convivenza) o voler fare esperienza della morte facendo un lungo sonno o descrivere il gusto di una mela a chi non ha mai avuto esperienza di cosa è la frutta. Il mistero della Trinità è Altro da tutte le altre forma di Relazione, è un mistero nel quale l’anima è dentro fino al collo… anche se il corpo è momentaneamente fuori, nell’attesa di venirvi tuffato dentro anche lui…
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A PROPOSITO DI VOLER SEMPRE SPIEGAZIONI… (commento omiletico)
COMMENTO OMILETICO DOMENICA TERZA DI QUARESIMA 2013 (Lc. 13, 1 – 9)
La tendenza dell’essere umano a voler “spiegare” tutto quello che gli capita di vivere o di osservare nella vita dei suoi simili è bella e lodevole perché fa parte del profondo bisogno di conoscenza che caratterizza appunto la mente umana. Se però questa tendenza a “spiegare” viene eretta a sistema unico di conoscenza per cui tutto quello che non si riesce a ”spiegare” razionalmente viene sbrigativamente qualificato come “non scientifico”, allora non ci siamo!
Non ci siamo, perché già in antichità si trova chi ha fatto i conti con questa realtà dei limiti della capacità conoscitiva… Diceva Confucio: “Ci vuole tutta una vita per capire che non si può capire tutto” e più recentemente c’è chi ha affermato: “L’ultimo passo della ragione è quello di ammettere che vi sono cose che la superano” per arrivare al paradosso di don Pronzato: “Se si toglie il mistero non si capisce più nulla”. Bastano questi pochi cenni per capire come mai , nel racconto di Luca di questa domenica, Gesù risponda senza dare “spiegazioni” a chi gli riferiva scandalizzato di eventi tragici (una colpa l’ avranno pure avuta quei Galilei fatti uccidere da Pilato proprio mentre offrivano sacrifici…. e una colpa l’ avranno anche avuta quei 18 che morirono schiacciati sotto la torre di Siloe… se no non si spiega!). E sembra irritato e minaccioso il suo tono nel rispondere… quasi a dire di non attardarsi a cercare spiegazione, ma di affrettarsi alla conversione (“Se non vi convertirete, perirete tutti!”). Con questa frase minacciosa Gesù passa del livello “razionale” al livello “spirituale” della questione mettendo in chiaro che la “conversione” e prioritaria rispetto alla attesa di spiegazioni per poi potersi convertire… se conviene.
E sembrerebbe finita così, senonchè Luca, con maestria didattica, inserisce a questo punto la breve parabola del fico che non da frutto (dopo tre anni di attenta coltivazione) provocando l’irritazione del proprietario del campo… irritazione che il contadino riesce a placare con un appello alla misericordia paziente: “Signore, lascialo ancora per quest’anno. Voglio zappare bene attorno a questa pianta e metterci del concime. Può darsi che il prossimo anno produca dei frutti; se no lo farai tagliare”.
Sembra di poter ricavare, dal brano liturgicamente così ben assortito di oggi, che a Gesù interessi in primo luogo la sollecita conversione personale (senza perder tempo a ricercare spiegazioni di eventi capitati ad altri… per natura loro “misteriosi”), ma anche interessi ricordare la infinita “pazienza” del Padre sempre in attesa di questa conversione… Anche perché non sembra fuori luogo vedere nel “contadino” che per “tre anni” ha amorevolmente accudito al fico lo stesso Figlio… E potrà mai un Padre del genere perdere la pazienza?
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I DEMAGOGHI ATTIRANO LE FOLLE, MA I PROFETI ANCORA DI PIU’ (commento omiletico al brano di Luca 3.10-18)
La scienza psicosociologica cerca di spiegare molte cose, compresi i comportamenti delle masse, delle folle e sostiene che il comportamento di queste, così come degli individui, è la parte manifesta di tutto un processo interiore sommerso fatto di idee, convincimenti, motivazioni, finalità da raggiungere che gli fanno da base. Per cui, quando le folle accorrono per sentire un leader, in genere lo fanno perché lo suppongono capace di rispondere al bisogno comune di un miglioramento delle condizioni di vita. Accade così che un leader, talvolta, si possa trasformare in demagogo promettendo mari e monti… e magari regalando poi un semplice atlante… Rimane psicologicamente curioso (e misterioso) come mai le folle accorrano, invece, a sentire leaders che non le blandiscono, che non le imbambolano, ma che addirittura biasimano comportamenti cattivi e propongono ricette “lacrime e sangue” per il miglioramento delle condizioni di vita…
E’ quanto narrato dal brano di vangelo di oggi che ci presenta il cugino precursore di Gesù, Giovanni, infuriato contro i comportamenti cattivi e certamente più profeta che demagogo, dal momento che invitava a cambiar vita “cambiando vita”, non promettendo pertanto mari e monti, ma invitando al sacrificio e alla penitenza. E proprio per questo le folle lo interrogavano concretamente sui comportamenti da “correggere”, sul da farsi. E di risposte ne aveva per tutti, conoscendo bene la vita dei suoi contemporanei, sebbene da tempo vivesse solitario nel deserto. Le aveva anche per i più cocciuti ai quali riservava aforismi e prescrizioni dal sapore vagamente paradossale (“chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto”) che psicologicamente è il miglior sistema per irritare ancor più chi non ha animo umile.. Infatti la risposta irritata dei Farisei “Noi abbiamo Abramo per padre, non abbiamo bisogno d’altro”! la dice lunga.
Le persone più disponibili delle folle invece, umilmente, lo interrogavano sul da farsi concreto ed ecco il Giovanni urlatore farsi mite e suggerire comportamenti minimali quali accontentarsi della paga (ai soldati), non esigere più tasse del dovuto (i pubblicani) e così via…E queste a lasciarsi battezzare…
Quello che più impressiona è come mai i profeti attraggano le folle più dei demagoghi… La risposta sembra semplice. Perché essi intercettano i veri bisogni dell’anima e con l’anima non si scherza. Giovanni, con il suo battesimo all’acqua di “rose” spiana la strada al Battesimo “spinosissimo” di Colui che darà piena e definitiva soddisfazione al bisogno di salvezza integrale dell’anima che avviene, paradossalmente parlando, sacrificando all’estremo quella del corpo. Ecco perché Gesù arriverà a dire proprio a riguardo del sacrificio estremo: “Quando sarò innalzato attirerò tutti a me”… tutti, compresi quelli più cocciuti. Tutti, anche quelli momentaneamente attratti dai demagoghi di turno. Ecco quindi chiarito come mai possano attrarre così tanta gente, per così tanti secoli di storia, uno squattrinato urlatore da deserto e soprattutto un Uomo martoriato appeso sanguinante su una croce. Mistero chiarisce mistero verrebbe da sussurrare…ed è subito gioia!
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Succede spesso di essere invidiosi senza accorgercene …(Commento omiletico del 30 settembre 2012)
Succede spesso nella vita quotidiana di essere alle prese con il demone dell’invidia, un demone capace di infilarsi negli anfratti più nascosti della mente e del cuore e da lì lanciare i suoi attacchi all’anima intera. Il demone dell’invidia (così come tutti i demoni capitali) è solito usare strategie raffinatissime per ottenere il suo scopo, quello di rovinare i rapporti.
La strategia principe usata dal principe del male è quella di passare inosservato perché capace appunto di camuffarsi, di mascherarsi suscitando in chi lo asseconda reazioni di “sdegno”, di “risentimento”, di vero e proprio “scandalo”.
Scandalizzarsi del male è normale, ma “sdegnarsi” o “scandalizzarsi” del bene è proprio strano e curioso. Questo meccanismo, del tutto inconscio, succede in ragione di ciò che si “pensa” di quell’evento che ha suscitato tanto “scandalo” o “risentimento”. Un esempio di antichissima data può chiarire meglio il concetto: Caino “pensava” che Dio gradisse di più le offerte del fratello Abele e ne ebbe invidia… fino ad eliminarlo… anziché eliminare il suo pensiero cattivo.. Ma su quale base di realtà, Caino, si era fatto questo “convincimento”? La medesima cosa potrebbe essere accaduta, nella notte dei tempi, a Lucifero quando “pensò” che non era giusto che Dio facesse il Dio da solo e ne ebbe invidia… fino a volerlo eliminare… senza riuscirvi però.
Più o meno dovrebbe essere successo (è il brano del vangelo che stiamo commentando) nientemeno che a Giovanni, il discepolo preferito da Gesù (e chissà se gli altri undici non avranno avvertito il pungolo dell’invidia nelle loro carni per questa gratuita preferenza di Gesù…).
Giovanni infatti “pensava” che chi non era del loro gruppo non potesse fare del bene… ed ecco scaturire da questo “pensiero virale” (cattivo pensiero) l’esplosione, degnata, scandalizzata, quasi trionfale di Giovanni: “Noi glielo abbiamo proibito perché non viene con noi”. Una esplosione, chissà, per la quale magari Giovanni si sarebbe aspettato da Gesù una lode, un encomio..
Ed invece Gesù risponde con un antivirus che va a colpire al cuore il virus di quel cattivo pensiero: “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo (che faccia, cioè, del bene…) in nome mio e subito possa poi parlare male di me. Perché chi non è contro di noi è con noi”- E prosegue poi con una sventagliata di paradossi da far tremare i polsi e da sconvolgere la mente, una sventagliata di paradossi dove, guarda caso, ricorre più volte la parola “scandalo”.
Gesù, con questa sventagliata di paradossi (“Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo…” ecc.) arriva a ribaltare l’atteggiamento “scandalizzato” (quindi invidioso…) di Giovanni e discepoli. Come a voler far capire chiaramente di non essere loro motivo di scandalo con i loro comportamenti meschini retti dal pensiero che “chi non è con noi è contro di noi”.
Ce n’è abbastanza per tutti noi… Anziché strapparsi le vesti per ciò che pensiamo “scandaloso” negli altri occorre comportarsi in modo che non siano altri a strapparsele a causa dei nostri atteggiamenti meschini, gretti, pettegoli ,razionali… invidiosi. E ciò accade facilmente quando si perde di vista lo scenario del Regno di Dio dove ognuno di noi è una comparsa e non una prima donna.
Anziché essere invidiosi (seccati, risentiti, irritati, addirittura scandalizzati…) che qualcuna faccia il bene come noi o sia più bravo e dotato di noi o sia “preferito” da Dio occorre semplicemente “pensare” che se questo qualcuno non è “contro Dio” è dalla parte di Dio e che se non è contro di noi è con noi. Questo convincimento di fede è il seme della amabilità fraterna. Se l’invidia del diavolo (a dirla con la Sapienza e con Paolo) ha rovinato il mondo delle relazioni, l’amore fraterno portato da Gesù lo ha salvato. A condizione di non guardare il fratello con occhio invidioso…
QUI CI VORREBBE UN MIRACOLO! (Commento omiletico di Mc. 5, 21-43)
Ci sono in circolazione espressioni di uso comune in grado di fotografare nitidamente o di definire con precisione una situazione emotiva o una sensibilità particolare. Ad esempio l’espressione “qui ci vorrebbe un miracolo” descrive molto realisticamente il senso di impotenza che attanaglia sovente il cuore in certe situazioni giudicate senza via d’uscita. Ma, a ben considerare, è una espressione vaga, eterea, quasi un tenue sfogo di rassegnato fatalismo fine a se stesso di fronte all’enigma o al non senso di taluni accadimenti nei quali si è finiti intrappolati. “Ci vorrebbe proprio un miracolo”, è una espressione che sottende sì un barlume di fede, barlume tuttavia non sufficiente ad illuminare il buio del dolore. Non sufficiente, questo anelito del cuore e dell’anima, perché privo di parametro di riferimento, privo cioè della consapevolezza (e magari anche dell’umiltà) di poterlo chiedere a “qualcuno” questo aiuto fuori dal normale. Un’altra espressione di uso comune è “basta il pensiero”, con la quale espressione si intende dar più valore all’interiorità che non alla esteriorità, si intende privilegiare l’anima delle azioni più che non le azioni medesime… Ebbene, dal coniugio curioso delle due espressioni ne scaturisce una terza che dà l’abbrivio al commento omiletico del brano di vangelo di Marco… Infatti “qui ci vorrebbe un miracolo” dovrebbe aver pensato il caposinagoga Giairo corso incontro a Gesù per richiedergli in extremis il salvataggio della figlia morente… E “basta il pensiero” deve aver pensato la sfortunata donna che da anni perdeva sangue e… anche soldi per fermare il sangue. Quindi, si potrebbe concludere che “basta il pensiero per ottenere un miracolo”. Pensiero rivolto a chi, però? Per ottenere un miracolo da chi, però? E in questo specifico caso, sia Giairo che la donna perdente sangue, disperati, per ragioni diverse, sulla strada della vita e con il cuore in apnea, avevano le idee chiare a riguardo; hanno avuto cioè la capacità (è per dono e non per bravura sapersi accorgere di possedere un dono, una capacità…) di attingere al fondo dell’anima la dinamica travolgente della fede… ben consapevoli a Chi chiedere l’impossibile (Giairo), anche soltanto con un pensiero (la donna afflitta da emorragia). Come siano andate a finire le cose è risaputo. E’ risaputo cioè che a Gesù basta che si creda veramente, senza se e senza ma (tanto per usare un altro evanescente modo di dire…), che non si perda tempo dietro a sospiri o lamentazioni…E i miracoli accadono, meglio, vengono profusi in abbondanza. C’è un altro dettaglio curioso da meditare… quello che oserei definire il dettaglio dei miracoli di strada… E’ infatti per strada, cammin facendo, che ci si imbatte facilmente, e sovente imprevedibilmente, in Gesù. Con ciò non si vuole sminuire il valore del luogo santo del tabernacolo dove lo si può trovare sempre e comunque sotto la forma da Lui inventata e da Lui preferita (l’Eucaristia), forma ancora inesistente prima del fatidico Giovedì Santo, ma si vuole semplicemente insinuare che quando l’anima lo cerca veramente per fede Lui c’è. Mi sovviene la notissima paradossale espressione di Sant’Agostino: “Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”. E la sua risposta è immediata, “subito”, annota l’evangelista. Sarà anche per questo che un giorno se ne uscirà dicendo di se stesso “Io sono la Via”. Come è anche curioso annotare che nell’utero di un miracolo (stava recandosi a casa di Giairo) c’è spazio anche per un miracolo gemello (quello della guarigione della emorragia della donna), quasi una esagerazione! Gesù non perde tempo a sanare e salvare quando chi lo cerca e lo trova fa richieste mirate motivate da fede certa. Che poi la sua risposta non sia sempre del medesimo livello o della medesima pasta della domanda attiene al rassicurante mistero della fantasia del Padre. www.gigiavanti.com
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E se invece di dare ordini dessimo esempi… (Commento omiletico del Giovedì Santo)
A chi insegna o tiene conferenze o partecipa a tavole rotonde, capita talvolta di dover trovare qualche escamotage per risultare convincente, persuasivo. E allora ricorre magari a peripezie dialettiche oppure ad aforismi fulminanti per convincere gli altri delle sue idee. La cosa potrebbe complicarsi quando al posto di convincere gli altri a cambiare le proprie idee, chi insegna o educa sente come missione quella di convincere gli altri a cambiare la propria condotta di vita. E questo lo si può fare se si è onesti con se stessi e se si dà il cosiddetto buon esempio… senza ostentazione, beninteso. Come ebbe a dire Sant’Agostino con una delle sue sobrie regole di vita: “Da’ ciò che comandi!” La cosa potrebbe complicarsi perché, in questo caso, ne andrebbe della propria credibilità qualora non si confermasse con la vita quanto detto a parole… anche se talvolta ne potrebbe andare della vita per sostenere la credibilità delle proprie parole.
Sembra esserci una analogia tra questa situazione e quel che accadde la sera di quel giovedì in quel di Gerusalemme attorno ad una tavola (non rotonda…) con Gesù a capotavola.
Il sobrio racconto di Giovanni ci dice ripetutamente che Gesù “sapeva” quel che gli sarebbe successo l’indomani, “sapeva” tutto per filo e per segno. Purtuttavia non si dette alla fuga, ma sfruttò fino in fondo l’occasione giocando l’ultima carta (era l’ultima cena…) quella del dare esempio di come si ama veramente… che più di così non si può (“li amò fino in fondo”…). Amare a parole non è convincente… Si cinse un grembiule attorno ai fianchi e iniziò a lavare i piedi ai dodici (anche di cattivo gusto, nel bel mezzo di una cena!) e poi cominciò a parlare di morte e di tradimento di amici (argomenti sempre indigesti mentre si mangia in compagnia) per concludere con un velato rimprovero e con un breve sermone: “Voi adesso non potete capire”… “Se io che voi chiamate Maestro, e lo sono, ho fatto questo…”. Non dovrebbe essere difficile concludere.
In quella serata Gesù inventò due sacramenti, quello della “fraternità” e quello della “eucaristia”… che poi la Chiesa, nella sua saggezza, unificò in uno, quello appunto dell’Eucaristia. Quasi a voler ribadire che non ci si può nutrire alla mensa della fraternità universale senza alimentare l’anima alla mensa eucaristica. La filantropia, lodevole e apprezzabile fin che si vuole, è altro dalla “fraternità”. Da quel momento tutto cambia nei rapporti uomo – Dio… Quel Dio, in libera uscita dall’eternità sotto le sembianze di Gesù per redimere il tempo, ha voluto indicare la modalità “ concretamente salvifica” del vivere i rapporti umani. E lo ha fatto nel bel mezzo di una cena quasi a voler suggerire che, così come le “buone relazioni” ci fanno star bene e ci fanno crescere nell’amore, allo stesso modo la “relazione intima con Lui” è l’anima di queste buone relazioni. E’ anzi questa a fondare quelle…
E’ bello ricordare, a questo punto, quando Gesù confidò il principio che governava la sua condotta di vita: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” e quando un giorno insegnò a pregare, sotto esplicita richiesta dei suoi: “ Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. E’ bello ricordarlo perché un filo strettissimo lega le due espressioni: la volontà del Padre è che ci si ami come fratelli… nella quotidianità più semplice delle relazioni… anche quando sembrano casuali (“Il caso è Dio che gira in incognito”, sosteneva Einstein) anche quando non si è seduti a tavola con amici o inginocchiati alla mensa eucaristica, ma in piedi per le strade del mondo…. Ed anche quando questa “comunione fraterna”, da seduti o in pedi, dovesse costituire più un problema da risolvere che non una realtà da vivere (Dio non crea problemi, bensì regala doni…) si rammenti questa simpatica osservazione: “La relazione con gli altri è come la cucina; in ogni pietanza ognuno trova quello che ci mette”. Il che non vuol dire cambiare posto a tavola o cambiare strada o cambiare chiesa… ma più semplicemente cambiare modo di stare seduti, cambiare modo di camminare e, quel che conta maggiormente “cambiare atteggiamento” nel rapporto di carità con i fratelli… scendendo dal piedistallo del proprio io, proprio come ebbe una volta da dire il Maestro in un’altra circostanza: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”.
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I curiosi significati della parola “battesimo” (Commento omiletico del brano sul Battesimo di Gesù)
(Mc. 1,7-11)
A molte parole tocca il curioso destino di venire usate in contesti diversi rispetto a quelli, per così dire, nativi, rispetto cioè a quei contesti per i quali quella parola aveva quel preciso significato e soltanto quello. Questo destino, seppur curioso, è comunque espressione della ricchezza e complessità di ogni realtà della vita, sempre impossibile imbrigliare in un concetto o rendere con parole. Si parla, a questo riguardo, di limiti del linguaggio umano, limiti che costituiscono però il suo valore.
Tale curioso destino è toccato anche alla parola “battesimo”, una parola seria, legata al mondo religioso, quasi certamente espressione “limitata” e “povera” di una esperienza primordiale del rapporto della creatura con il suo Creatore e passata poi in altri contesti. Si pensi ad esempio al mondo del calcio quando il cronista descrive un portiere che non si muove per la parata in quanto che “ha battezzato fuori la palla” (in questo caso “battezzare” ha significato di “valutare”, “giudicare”) oppure al “battesimo dell’aria” per il primo lancio dei paracadutisti, al battesimo del “fuoco” ( rito iniziatico di certe tribù consistente nel marciare sui tizzoni ardenti) o al battesimo di “sangue” (iniziazione alla caccia o alla guerra) e così via. In tutti questi casi si tratta di una esperienza avente carattere di “irrepetibilità”, è una sorta di punto di non ritorno.
Il brano di vangelo di questa domenica introduce però un “elemento” nuovo, quello della “conversione” rispetto alla esperienza di vita precedente. Il battesimo cristiano è sì un rito iniziatico, ma finalizzato ad un cambiamento radicale di vita. Ci si butta in un’altra dimensione di vita dove quel che conta e di “convergere” sistematicamente verso Dio nel proprio agire quotidiano. Il racconto dell’evangelista Marco ci permette di cogliere questa “novità” di significato molto nutriente per l’anima! La sobrietà del suo narrare fa risaltare meglio la straordinarietà di quella esperienza ordinaria della “conversione”. Straordinaria perché non avviene per presuntuosa scelta personale, ma per umile e misteriosa accettazione, da parte dell’anima, di tutto un segretissimo processo interiore di impulsi capaci di trascinare gradualmente l’intera persona al momento e al punto della “conversione”. Ordinaria perché questo momento di “conversione” dovrà spalmarsi nel fluire ordinario del giorno dopo giorno.
La narrazione di Marco consente pertanto di cogliere quest’atmosfera di “adultità” e di “maturità” caratterizzanti l’evento, quasi a voler suggerire che l’esperienza cristiana non è cosa per animi molli, pettegoli o infantili. E’ Gesù, l’adulto, infatti a decidere consapevolmente di andare dal cugino Giovanni a farsi battezzare; è Lui a decidere di uscire allo scoperto per iniziare la sua splendida e tragica missione di far cambiare rotta all’umanità peccatrice facendola “convergere” verso Dio; e compie questo atto di sottomettersi al “battesimo” sebbene non ne avesse avuto bisogno non essendo né peccatore, né bisognoso di “convergere” verso Dio; e tutto questo avviene lasciandosi guidare dallo Spirito (e non dalle “sue” idee o precomprensioni), lo stesso Spirito che di lì a poco lo indurrà ad andare nel deserto per essere istigato dal diavolo a “leggere” la sua futura missione in maniera autocentrata e vanitosa, quindi “divergente” rispetto alla volontà del Padre.
Ed è a questo punto che scoppia l’applauso di Dio per il suo Figlio preferito, il più riuscito di tutti, si direbbe con linguaggio umano. Un Dio rimasto in attesa trepidante di questo momento e che finalmente da libero sfogo alla sua commozione fa veramente tenerezza! Essere “battezzati” diventa a questo punto essere quotidianamente “convergenti” verso Dio nei pensieri, nelle parole, nei sentimenti, nelle azioni. Vivere da “battezzati” significa vivere per la causa del Regno di Dio da “adulti” (a tal proposito verrà regalato all’anima il pacco-regalo dei doni dello Spirito con il sacramento della Cresima).
L’anima è già “tarata” dall’eternità su questo programma, per questa missione… Tocca alla persona “adulta” e “matura”, per grazia e nel giorno dopo giorno accorgersi per tempo e assumere in tutto e per tutto tale compito assegnato all’anima da Dio fin dall’eternità. L’anima è una sorta di nave in libera uscita dal porto dell’eternità a cui è stato concesso di navigare nello spazio limitato del tempo perché poi vi possa fare ritorno portandosi appresso la persona con la quale Dio, nella Sua Somma fantasia, l’ha voluta “mascherare” (nella lingua greca “persona” equivale a “maschera) sul palcoscenico spazio-tempo della storia.
Il corpo, la mente e il cuore costituiscono quindi questa “maschera” della persona e possono essere paragonati a tre navicelle alle quali conviene moltissimo seguire la scia della “nave-pilota” aperta dall’anima. Conviene moltissimo alla persona seguire la rotta dell’anima, una rotta che essa conosce benissimo. Quando questo non avviene (persone che smarriscono la rotta, persone che ostacolano ad altri di seguire la rotta veritiera e unica segnata dall’anima, persone che si lasciano ingannare da altri indicatori di rotta…) sorgono conflitti e incomprensioni, tragedie e burrasche tra le persone. E’ l’inganno del nemico numero uno dell’anima. Affinché tale inganno non ci porti a naufragare nel peccato e si possa invece navigare insieme (anima e persona) verso lo spazio infinito dell’oltre temp resistendo alle intemperie e alle tempeste, è a disposizione la potenza dello Spirito che nel battesimo (di acqua, di fuoco, di spirito, di desiderio, di sangue…) di Gesù ha scquarciato i cieli perché ci giungesse più forte l’applauso di Dio… Quanto è bello e salutare per l’anima poter dare a Dio quotidianamente questa soddisfazione nel vederci vivere da persone battezzate, mature! Quanto deve essere bello e appagante per Dio vedere la sua creatura, la persona creata, i suoi figli meno riusciti ( non certo per causa sua) accodarsi agli inviti dell’anima per corrergli incontro approdando al porto della felicità per sempre e totale. Se questa è la gioia di Dio, vivere nella gioia della fede ne è la conseguenza per i “battezzati”. Se il Paradiso di Dio è la sua gioia nel vedere le sue “anime”, ad una ad una, ritornare a casa, il Paradiso della persona incomincia in quel momento in cui essa, togliendosi la “maschera” gli dirà: “Mi hai riconosciuto?”. Ed entrambi, Dio e la sua anima, si abbracceranno e sarà emozione eterna. E perché non potrebbe essere possibile una anticipazione, nel tempo-spazio, di questa emozione?
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OMELIA DEL 30 OTTOBRE 2011 (Mt. 23,1 – 12)
La parola “cattedra” (etimologicamente “sedia a braccioli”) rimanda immediatamente al mondo della scuola. I “concorsi a cattedra” sono da sempre affollatissimi, anche se poi a vincerli sono pochi. Ma la realtà della cattedra non riguarda soltanto il mondo della scuola… Negli ambiti della vita sociale, familiare, religiosa l’inclinazione a mettersi in cattedra per insegnare o ribadire le regole del convivere risponde ad una sana e lodevole profonda esigenza dell’animo umano, quella di fare da battistrada e da apripista all’avanzamento della verità e della giustizia in quella staffetta universale che è l’esistere terreno. L’accoppiata “insegnamento-apprendimento” si avvale inoltre di tutta una serie di strumenti e di metodologie in grado di facilitare la trasmissione dei valori da una generazione all’altra. C’è però un elemento non trascurabile che rende più efficace la trasmissione dei valori ed è l’elemento della “coerenza” dell’insegnante rispetto ai valori proclamati. “Le parole smuovono, l’esempio trascina”, ammonisce un vecchio proverbio. Se è vero, come è assodato dalle scienze pedagogiche, che si impara per “apprendimento e per via imitativa”, ne consegue che a facilitare l’apprendimento è proprio la coerenza di chi “sta in cattedra”. In una parola è proprio “l’incarnazione” della teoria nella vita personale a determinare la riuscita possibile del passaggio del testimone da una generazione all’altra. E la parola “incarnazione” ci immette nel contesto del brano evangelico di oggi quasi a voler ribadire subito che è proprio l’incarnazione a sostanziare la proclamazione della verità. Dio non è stato seduto sulla sua cattedra tra le nuvole a proclamare i suoi pensieri, ma “per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo”. Gesù, la Parola fatta Carne…per diventare poi Pane, ha tutte le carte in regola quindi per prendersela con coloro che “siedono sulla cattedra di Mosè” stigmatizzando le loro incoerenze, i loro “comportamenti” incongruenti: legano pesi gravi e insopportabili e li caricano sulle spalle degli uomini, ma essi non lo vogliono muovere neppure con un dito, fanno poi tutte le loro azioni per essere veduti dagli uomini, amano i primi posti nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe, vogliono essere salutati nelle pubbliche piazze ed essere dalla gente chiamati maestri… Gesù stigmatizza con esemplificazioni precise i comportamenti “incoerenti” e lo fa in maniera convincente proprio in ragione della sua “coerenza”. E la pagherà cara, per noi, questa sua coerenza. Non si limita però a “denunciare” il male, bensì indica “ai discepoli e alle turbe”, quindi a tutti coloro che in qualche modo lo vogliono scegliere come “maestro di vita”, il comportamento alternativo. Un comportamento alternativo che ha il suo perno nel riconoscere l’identità radicale dell’essere umano che è una identità di “fraternità universale”. Tale forte richiamo alla identità radicale della fraternità taglia la testa al toro e evita di cadere nella trappola del “parlare bene e del razzolare male”, o del gongolarsi quando si viene chiamati “maestri” (“uno solo è il vostro maestro”… chiarisce Gesù ammonendo soavemente coloro che svolgono la “funzione” di maestro…:”Imparate da me che sono mite e umile di cuore”) oppure “padri” (“Uno solo è il Vostro Padre, quello dei cieli”), oppure ancora “dottori” (“Chi è maggiore tra voi, sarà vostro servo”…). Come a dire che se ci si ricorda di essere nati “orizzontali” (è la simpatica espressione del mio caro amico fratello prete, e adesso anche Monsignore… don Carlino), cioè fratelli nello Spirito (e non nella carne o nel sangue) si resiste alla tentazione di “montarsi la testa” quale che sia la “funzione” momentaneamente assegnataci per la causa comune del Regno di Dio. (Gigi Avanti) PARTE LITURGICA (domenica 30 ottobre) Ammonizione iniziale: nel prepararci alla celebrazione dei santi misteri dell’eucaristia predisponiamo i nostri cuori e le nostre menti ad ascoltare sinceramente quelle che il Signore vorrà dire alla nostra anima. Preghiera dei fedeli: Ti preghiamo, o Signore, per Papa, Vescovi, sacerdoti e consacrati affinché riconoscano in tempo lo scarto esistente tra il dire e il fare. Ti preghiamo, o Signore, per tutti coloro che svolgono funzioni di insegnamento nei vari ambiti della vita della Chiesa affinché al loro dire segua sempre il fare. Ti preghiamo, o Signore, per tutti i fedeli laici spesso turbati dalle incongruenze di comportamento di altri loro fratelli laici. Ti preghiamo, o Signore, di avere misericordia delle nostre piccole e grosse infedeltà, delle nostre ipocrisie, del nostro tenere troppo alla facciata esteriore. Ti preghiamo, o Signore, di far suonare l’allarme nella nostra coscienza quando al nostro “dire” per la causa del Regno tuo non segue un coerente e immediato “fare”. Benedizione finale: Il nutrimento dell’eucaristia possa conferire ai nostri comportamenti e alle nostre azioni la caratteristica della coerenza e l’abito della mitezza e dell’umiltà secondo l’esempio del nostro Signore Gesù Cristo.
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