LA SORPRESA IN DISCOTECA
(Essere felici della felicità degli altri è una raffinatezza dell’amore)
“Pronto Chiara, allora si va in discoteca oggi? Alle 15 va bene?”. Un sabato cominciato così, con un programma ormai solito e scontato, uno scopo banale che tutti i fine settimana o quasi mi porta a passare il pomeriggio in discoteca, quasi ci fosse una forza calamitata ad attirarmici.
Come me ci sono milioni di giovani che trascorrono le ore ballando a volume esagerato in mega stanzoni semibui, di tanto in tanto abbagliati da luci stroboscopiche o psichedeliche.
E’ un mondo a parte, di questo ne sono convinta, è un pianeta a se stante che ruota, o è fatto ruotare attorno ai giovani di tutti i tipi, di ogni età e condizione.
Una cosa però accomuna tutti i frequentatori di sale d ballo, la voglia di ridere, di divertirsi, farsi notare, esprimersi magari con movimenti se magari a parole si è timidi, essere qualcuno, uscire dalla routine quotidiana e lasciarsi andare, infischiarsene di essere presi in giro, anche perché non c’è ballo che va di moda e ognuno si scatena a modo suo, personalissimo, senza mai essere deriso.
Quel pomeriggio sono arrivata davanti al “Makumba” alle 16 circa. Dopo una fila straziante, condita da spintoni, risse, svenimenti, manganellate da parte dei buttafuori, alle 17,35 finalmente ero con mezzo piede in pista. In un attimo mi è passato tutto il rancore e la rabbia accumulati durante un’ora e mezza di attesa, ed ho cominciato a ballare con i miei amici, saltando da un cubo all’altro, cercando di imitare i passi che mi piacevano di più e, beh… diciamolo, cercando anche di “rimorchiare” qualche bel ragazzo. Non è per tutti vero che il volume della musica annebbia il cervello. A me, ad esempio fa pensare: la mia mente in discoteca comincia a viaggiare mentre il mio corpo va da solo, io ricordo, rifletto, penso.
Ed è stato proprio in uno di questi momenti che, sabato, ho notato un particolare che mi ha sconvolto, al punto di farmi sedere per cinque minuti. La discoteca di solito è grande, ci sono parecchi spazi dove è possibile ballare e, si sa, i ragazzi riescono ad infilarsi ovunque e comunque, negli angoletti, tra le sedie, tavoli, pedane, scale.
L’unico spazio libero resta dunque la base sottostante la consolle del disc-jockey. E’ una zona un po’ più buia perché la luce proveniente da sopra impedisce di vedere bene.
Io stavo ballando felicemente quando, guardando da quella parte, ho notato una sagoma un po’ strana, una realtà inusuale per una discoteca: un ragazzo paralizzato su una sedia a rotelle. Il mio sguardo era stato letteralmente catturato ed i miei movimenti sono piano piano diminuiti e, senza rendermene conto, ho rallentato fino a fermarmi del tutto.
La prima impressione è stata di infinita pena per quell’essere umano costretto all’immobilità, impressione accompagnata da rabbia verso me stessa per l’incapacità di apprezzare la fortuna di essere nata sana.
In poco tempo anche i miei amici si sono accorti di quel ragazzo, e tutti, ad uno ad uno, si sono contemplati a contemplare, a riflettere, a parlare.
La reazione più violenta è stata quella di Enrico che per la collera, ha preso a calci un’inferriata, non riuscendo a comprendere e ad accettare come mai una madre arrivasse a torturare tal punto il proprio figlio da accompagnarlo a vedere gente che ballava, gente libera di fare quello che lui non avrebbe potuto fare, insomma a vedere gente “normale” di discoteca. Come un uccellino in gabbia, costretto a guardare uno stormo che migra ad oriente verso la libertà e l’avventura.
Tentavo di continuare a ballare, ma il mio sguardo si rivolgeva irresistibilmente verso di lui… ed è stato meglio così, perché tra fumo, gente ammassata, luci, rumore… io ed i miei amici avevamo voluto vedere in lui le cose che volevamo noi, il pretesto per iniziare le solite polemiche ciniche da bar sulla pena provocata dagli handicappati e la fortuna nostra di essere normali, trascurando però il particolare più importante, più significativo, il particolare di provare a mettersi nei “suoi” panni.
Dopo averlo infatti osservato più volte, l’occhio si era abituato all’oscurità, al punto di essere riuscita con infinito stupore a vedere il suo volto: era contento, gioioso, rideva. Il suo sorriso ha illuminato il mio cuore, è stato come dirmi: “Guarda che io sono contento, sono contento per quello che ho”.
La pena e la compassione sono svanite quasi per incanto ed il loro posto è stato preso da un’immensa ammirazione e di una sorta di strana invidia.
Non tanto nei confronti del suo deficit fisico, quanto per la sua superiorità psicologica ed emotiva.
Il suo sguardo infatti era illuminato, il suo sorriso gioioso. Riusciva anche a battere il ritmo della musica con i movimenti del capo. Ho ripreso a ballare più contenta di prima ed ho capito che la “normalità” è una condizione personale, psicologica, interiore.
Un uccellino in gabbia può anche guardare gli stormi migrare nel cielo, senza rattristarsi, anzi riuscendo a ricavare la sua felicità proprio da quel migrare altrui.
(Da un tema a 18 anni di Chiara Avanti, volata il Cielo a 41 anni l’8 settembre 2017, lasciando nello sgomento i suoi cinque figli e tutti coloro che ha amato e che l’hanno amata.