Archivi del mese: gennaio 2019

MEDITAZIONI…

commento omiletico della domenica 3 febbraio 2019

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FATICOSO CRESCERE… ma bello!

LE TRE CHIAVI  (quanta fatica per crescere…ma quanto è bello!)

 C’era una volta una principessa bionda che viveva felice con il suo papà, il re sole, in un paese meraviglioso. Non c’erano ombre nel paese del sole, ogni cosa ed ogni creatura godeva di una luce e di un colore particolari, Anche di notte, quando  il sole andava a dormire, brillava tutto perchè il cielo era pieno di stelle. Non c’era felicità  in quel paese, e non c’era dolore: questi abitavano al i là dei monti, in un altro regno sempre buio e sempre cupo, con rocce aspre e molto scoscese e spaventosi burroni da cui era difficile risalire.

Quando la principessa arrivò al suo 18° anno di età il re Sole le regalò Tre chiavi d’oro dentro uno scrigno, sopra il quale brillava un nome: Donna.

Non le spiegò nulla, non disse niente, ma da quel momento in poi la principessa fu presa dalla smania di cercare per tutto il regno delle porte che si potessero aprire con quelle chiavi.

Cominciò dal castello, poi nelle varie case, fino alle casupole più misere dei più lontani villaggi; dappertutto vi erano delle porte, ma nessuna si lasciava aprire da quelle chiavi. La principessa divenne sempre più impaziente e sempre più inquieta e il regno del sole le diventò sempre più angusto e limitato…

Un giorno, salendo su un’ alta montagna del suo regno, sempre continuando la sua ricerca, si affacciò su quello confinante, della infelicità e del dolore e vide che lontano, lontano, lontano apparivano porte che non aveva visto mai: bellissime, ma spaventose…

Intuiva che fra quelle avrebbe potuto esserci una porta importante per lei, e rimase a lungo a pensare: abbandonare il regno del sole, della felicità e della gioia solo per aprire quella porta… Ma la spinta era fortissima. Chiese aiuto al re sole e questi rispose semplicemente: “Se ti avessi voluto soltanto per me, non ti avrei regalato quello scrigno. Scegli il tuo destino e vai dove il cuore ti porta”.

E così la principessa si tolse i bei vestiti, nascose i suoi biondi capelli dentro ad un fazzoletto, prese poche cose con sé, e con lo scrigno con le chiavi, si avviò verso il mondo oscuro del dolore e dell’infelicità. La pioggia e il vento sferzavano il suo viso, i suoi piedi le si piagavano per quei viottoli scoscesi, ma lei continuava coraggiosamente ad andare avanti. Cadde dentro ad un  burrone, si ferì, ma trovò le forse per risalire; finì dentro ad un secondo, ad un terzo…

Era ormai stremata e decisa a finire così il suo viaggio quando si accorse che la porta era straordinariamente vicina e con un ultimo sforzo di volontà la raggiunse. Provò la prima chiave, poi la seconda… Con la mano che tremava provò la terza. La chiave girava bene nella serratura. E la principessa esultò di gioia; non aveva percorso quel doloroso cammino invano…

Ma quando la porta si aprì, dal suo profondo uscì un urlo di paura. Sotto la scritta CONSAPEVOLEZZA vi era uno specchio e questo le rimandava una immagine di sé che non conosceva. Per una metà era rimasta la bella principessa bionda figlia del Sole, ma l’altra metà era segnata dal dolore e dalla infelicità che l’avevano contagiata al suo passaggio nel loro regno.

L’occhio era pesto e pieno di pianto, ispidi i capelli, piegato in giù l’angolo della bocca, cadenti le spalle, chiusa in un pugno di rabbia la sua mano, raggrinzita e scura la pelle.

Avrebbe voluto richiudere la porta e tornare indietro, ma non fu più possibile. Poteva solo continuare il suo viaggio alla ricerca delle altre due porte portando con sé il suo corpo ormai inesorabilmente cambiato.

Ma non poteva pensare di farsi vedere così. E allora si velò, nascose quella sua parte brutta agli occhi degli altri, cercò sentieri poco battuti e poco conosciuti. Cercava di non mostrare quella sua parte dolente di cui tanto si vergognava.

Ma era però proprio quella parte che le dava energia quando era stanca, che la aiutava a trovare soluzione nelle difficoltà, che la faceva più attenta a cogliere le sfumature del mondo che la circondava.

Il cammino era sempre più faticoso, sempre più alte le montagne da scalare, sempre più difficile risalire dai burroni. Faceva molto freddo e la principessa dovette coprirsi sempre di più, sempre di più, lasciando scoperti soltanto i suoi occhi.

Ma così coperta e infagottata era sempre più faticoso proseguire e le cadute erano sempre più frequenti.

Finalmente riuscì ad arrivare alla porta successiva; anche questa era bellissima, ma spaventosa.

Provò la prima chiave, niente. La seconda chiave entrò facilmente nella serratura e la porta si aprì. Dalla porta aperta la principessa la principessa fu travolta da una gigantesca  ventata che si chiamava VERITÀ’  che la lasciò completamente nuda privandola di tutti i suoi vestiti.

Era arrivata nel paese dell’ AUTENTICITÀ’ dove il vento impediva a chiunque di nascondersi dentro i vestiti e tutti perciò giravano nudi; non c’erano anfratti dove nascondersi, non c’erano alibi ai tradimenti e nemmeno illusioni alle speranze.

Fu costretta così a mostrarsi così, mezza bella e mezza brutta, ma si accorse finalmente che non era la sola ad essere così. Anche gli altri erano mezzi belli e mezzi brutti e come lei attraversavano quel paese.

Ma la principessa non era ancora contenta, aveva ancora un ‘altra chiave con sé quindi un’ altra porta da aprire.

Senza quella terza ed ultima porta non aveva senso il suo viaggio.

Finalmente la trovò dopo molto girovagare e il cuore le sobbalzò dalla gioia. La chiave entrò facilmente e la porta lentamente si aprì.

Dietro quella porta il cui nome era INTIMITÀ’ la stava aspettando  un principe. Veniva dal regno degli ideali, aveva attraversato territori infidi e drammatici che si chiamavano realtà e limite. Anche lui era mezzo bello e mezzo brutto, la sua nudità ostentava profonde ferite che si chiamavano delusioni e fallimenti, ma aveva in mano uno scrigno su cui, a lettere d’oro, era scritto: UOMO.

Lui le disse: “Ti presento la mia libertà”. E lei gli rispose: “Ed io ti presento la mia”. E insieme si incamminarono verso un prato, pieno di margherite che avevano un cuore giallo, caldo e luminoso, come il loro, come quello che erano riusciti a conquistare attraverso mille peripezie…

Il regno dell’intimità li accolse in un tripudio di alberi fioriti… ed offrendosi ogni giorno, reciprocamente, le loro libertà vissero ANCHE felici e contenti.

                                               (Mercedes Indri De Carli, psicoterapeuta)

 

 

 

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Da Dio non si può pretendere nulla!

       COMMENTO OMILETICO    della domenica 3 febbraio 2019 (Lc. 4, 21 – 30)

 

   Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura per voi che mi ascoltate”. Tutti gli rendevano testimonianza ed erano stupiti  per le parole piene di grazia che pronunciava e si chiedevano: “Ma costui non è il figlio di Giuseppe?”.        Egli rispose: “Sono sicuro che mi citerete il proverbio ‘medico, cura te stesso’. Tutto ciò che abbiamo udito che è accaduto a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria”. Ed aggiunse: “In verità vi dico: nessun profeta è ben accetto nella sua patria: Vi dico inoltre: c’erano molte vedove in Israele al tempo del profeta Elia, quando per tre anni e sei mesi no cadde alcuna goccia di pioggia ed una grande carestia dilagò per tutto il paese; a nessuna di loro però fu mandato il profeta elia, ma solo ad una vedova di Sarepta, nella regione di Sidone. E c’erano molti lebbrosi in Israele ai tempi del profeta Eliseo; eppure a nessuno di loro fu dato il dono della guarigione, ma solo a Naam il Siro”.

   Sentendo queste cose, coloro che erano presenti nella sinagoga furono presi dall’ira e, alzatisi, lo cacciarono fuori dalla città e lo condussero fino in cima al monte sul quale era situata la loro città per farlo precipitare giù. Egli, peròò, passando in mezzo a loro, se ne andò.

 

MEDITAZIONE:

 Sembra che nel brano di Luca appena letto qualcosa non torni dal punto di vista narrativo. Pare di scorgere, cioè, un brusco passaggio narrativo che lascia intendere che l’evangelista non riporti tutte le parole di Gesù e che unisca due o altri episodi distinti nel tempo. Questo, almeno, notano i biblisti.

   Tuttavia, però, nulla vieta di riuscire a ricavarne qualche nutrimento per meglio poter crescere nell’amore per Gesù e dedicarci, con solerzia, alla causa del suo Regno.

   Con solerzia, dico, lasciando perdere per strada la lusinga del pretendere da Lui un trattamento speciale.

   Cosa che sembrano aver fatto i suoi concittadini di Nazaret, che una volta avutolo finalmente tra loro, non gli hanno proprio riservato una accoglienza encomiabile, ma neppur formalmente civile. Anzi!

   I suoi concittadini, infatti,  sono riusciti a colpire l’area più intima e segreta della sua anima, quella dove ha sede la dignità di Figlio di Dio e di Messia. Sono riusciti a farlo sdegnare.

   Ed è fantastico sentire con quale divino sarcasmo Egli abbia loro risposto leggendo nei loro cuori i pensieri e le pretese di miracolo.

   E’ bellissima questa reazione stizzita di Gesù a fronte della loro pretesa di un trattamento speciale, a fronte della pretesa di vedere lo spettacolo di un miracolo per poi dedicargli l’applauso… e magari, ma non è proprio così sicuro, anche la fede.

   Quello che vuole insegnare Gesù è l’esatto contrario rispetto alla presunzione dei suoi concittadini: è la fede, seppur mendicante, a provocare il miracolo e non il contrario.

   La fede, è la fede a far sgorgare lo zampillo del miracolo dalle sorgenti più limpide e profonde dell’anima. Anche oggi.

   E la fede nasce dall’ amore. Chi ama ha fiducia totale. Chi ama Gesù non pretende nulla da Lui, non mercanteggia. Lo segue e basta.  

   Un’ultima considerazione sul celebre detto: “Nessuno è ben accolto dai suoi”, “Nessuno è profeta in casa propria”.

   Sembrerebbe, quindi, che ad essere più in difficoltà a lasciarsi andare alla fede semplice siano proprio coloro che si credono più vicini a Gesù… per tutta una serie di autoconvinzioni tutte da verificare.

   Non è forse la medesima dinamica che caratterizza alcune relazioni familiari?

Non capita, forse, che del buon samaritano in casa non se ne accorga nessuno dei suoi e che sia più gratificante fare il buon samaritano fuori casa, bene in vista e magari sotto i riflettori, che non esserlo in casa, silenziosamente e invisibilmente?

   Non è che sotto questo non riconoscimento del “profeta in patria” o del “samaritano domestico”, si nasconda una delle forme più occulte e  insidiose dell’invidia?

   Non è che ci si dimentichi troppo facilmente che “per invidia del diavolo entrò il male  nel mondo”?

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Quando si è alle prese con il dolore

LA RAGAZZA E IL FIUME   (quando si è alle prese con il dolore…)

 C’era una volta un piccolo paese, con le casette bianche dal tetto rosso, tanti giardinetti fioriti, una piccola piazza con la chiesa e il campanile aguzzo.Gli abitanti vivevano serenamente, capaci di godere di quell’ armonia che avevano sapientemente costruito e che il villaggio nella sua struttura rispecchiava. Avevano solo un grandissimo problema: il fiume che scorreva lì vicino. Con le acque scure e profonde, spesso tumultuose e con quel nome orrendo: si chiamava Dolore. Invano gli abitanti avevano cercato di modificarlo con coloranti, schiumine profumate, galleggianti con lampioncini luminosi. Niente. La corrente portava via ogni cosa. Qualcuno aveva anche cercato di modificare la targhetta segnaletica; al posto di Dolore aveva scritto Gioia. Niente da fare. Uno spruzzo aveva ripristinato il vecchio nome.Un altro, più in gamba, aveva modificato solo un pezzetto: non DOL…ORE, ma DOL…CEZZA nella speranza di ingannarlo. Ma il fiume era inesorabile. E la targhetta rimase immutata.

Quando un bimbetto cominciava a camminare, subito gli veniva insegnato ad evitare con cura quelle sponde infide. I saggi del paese avevano costruito delle palizzate, piantato degli alberi. Tutto inutile. Il fiume sembrava ingovernabile. Così decisero di creare delle squadre di vigilanza e di pronto soccorso. Poiché, purtroppo, malgrado le raccomandazioni, le cautele, le leggi, qualcuno degli abitanti, prima o poi,, non si sa bene se da solo, o rapito dal fiume stesso, cadeva dentro a quelle acque terribili. Allora tutto  il paese si mobilitava.

 Il poveretto annaspava, si dibatteva, dalla riva, con altrettanta angoscia, partivano i tentativi di salvataggio. Funi, pertiche, salvagenti, gommoncini. Il fiume inesorabile portava via ogni cosa, e nella maggioranza dei casi il malcapitato moriva tra i flutti, arrabbiatissimo per non essere stato aiutato, lasciando tutti con un gran vuoto e un gran senso di colpa. E i saggi non riuscivano nemmeno a coordinare i tentativi di salvataggio anche quando facevano le esercitazioni nella piscina del Sindaco. Tutti infatti pensavano: e se stessi io dentro al fiume? E perdevano la testa.

Un giorno, per l’ennesima volta, gli abitanti stavano tentando di salvare una ragazza. Era caduta dentro al fiume perché essendo molto innamorata, fantasticava e sognava con la testa fra le nuvole pensando al suo amato bene, e…pluff. Ora si dibatteva disperata e ormai stava per essere sopraffatta dai flutti.

Per caso passava di lì uno straniero, un tipo poco rassicurante per il suo vestito strano. Ma aveva un aspetto imponente e una bellissima voce.

 “Non avere paura. Apri le braccia e lasciati andare, non opporre resistenza e il fiume ti sosterrà. Il suo nome è DOLORE, non MORTE. Se vuoi, sono qui per te. Se me lo chiederai posso buttarmi, ma non ti salverò. Posso solo condividere con te la stessa acqua, e sfiorando la tua mano con la mia, farti sentire meno sola. Oppure posso seguirti dalla riva, con il mio canto. Oppure stando zitto, pensarti con amore. Ma prima di chiedere aiuto pensaci bene. Forse puoi scoprire che dentro di te, una volta che non sprechi tutte le tue energie ad opporti al dolore, hai tante risorse e capacità che nemmeno pensi di possedere e non hai bisogno di me.”

Dall’ argine del fiume i saggi insorsero contro lo straniero: “Ma che sistemi!”

Sicuramente la ragazza sarebbe morta così. E riprovarono con le loro funi e il loro angosciato e angosciante incitamento: “Fai qualcosa, fai qualcosa. Prendi questo, afferra quest’altro. Non devi fare così, fai piuttosto colì. Sbrigati, altrimenti morirai”.

Ma la ragazza non volle ascoltarli più.

Qualcosa dentro si sé le disse che lo straniero aveva ragione. Solo la sua voce le aveva fatto passare la paura e piano piano, anche se l’acqua era fredda , dolciastra e schifosa e ogni momento rischiava di risucchiarla sotto, aveva risvegliato la fiducia. Allargò le braccia e rimase ferma, lasciandosi trasportare dalla corrente, anzi, piano piano, si accorse anche di assecondarla.

 E più la assecondava, il Dolore era meno tumultuoso e meno bruciante. E piano piano le acque del fiume, scendendo, si placavano.  E le permettevano di vedere il mondo circostante da  un’altra visuale.

Non più linee diritte, ma anche ondulate, non più solo colori accesi e definiti, ma anche toni sfumati e fusi uno nell’ altro.

Cominciò a pensare che stava acquistando qualcosa.

E qui il fiume Dolore, che nel frattempo si era definitivamente acquietato e addolcito la portò con sé e insieme si tuffarono nel mare.

In quelle acque immense il Dolore si sciolse e la ragazza scoprì che l’acqua che la sosteneva non era più la stessa. Aveva un altro sapore. Era salata. Perché nel mare è sciolto il SALE DELLA VITA.

    (Mercedes Indri De Carli, psicoterapeuta)

 

 

 

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Passeggiando….

                                                   V A R I E   per amici molto diversi…

 

“Se è pace che vuoi, cerca di cambiare te stesso, non gli altri. E’ più facile proteggersi i piedi con delle pantofole che ricoprire di tappeti tutta la terra”.(De Mello)

 “Se l’aver mangiato un frutto ha rovinato l’umanità, la salvezza sarà nell’atteggiamento contrario: nel guardare un frutto senza mangiarlo”. (Weil)

 “Cosa succederebbe se scoprissi che il mio stesso nemico si trova all’interno di me stesso, che sono io pertanto ad avere bisogno dell’elemosina della mia amabilità, che sono io il nemico da amare?” (Jung)

“Che cosa è Dio” domanda il bambino. La madre lo stringe fra le braccia e gli chiede: “Che cosa provi?” “Ti voglio bene”  risponde il bambino”. “Ecco, Dio è questo!” (Kieslowski)

 “Per un pipistrello il paradiso è pieno di pipistrelli”.

 

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Se quando piove sei triste, cambia ombrello!

L’OMBRELLINO GIALLO  (Se quando piove sei triste… cambia ombrello!)

 C’era una volta un paese grigio e triste dove, quando pioveva, tutti gli abitanti giravano per la strada con degli ombrelli neri, sempre rigorosamente neri. E sotto l’ombrello tutti avevano una faccia aggrondata e triste, come del resto è giusto che sia sotto un ombrello nero

Ma un giorno che la pioggia scrosciava, proprio nell’ora di punta, si vide circolare un signore un po’ bizzarro che passeggiava sotto un ombrello giallo. E, come se non bastasse, quel signore sorrideva.

Alcuni passanti lo guardavano scandalizzati e mugugnavano: “Guardate che indecenza! E’ veramente ridicolo con quel suo ombrello giallo. Non è serio. La pioggia invece è una cosa seria e un parapioggia deve essere nero”.

Altri montavano in collera e dicevano forte: “Ma che razza di idea è quella di andare in giro con un ombrello giallo?

Quel tipo è solo  un esibizionista, uno che vuol farsi vedere a tutti i costi. Non è per niente divertente!”.

In effetti non c’era niente di divertente in quel paese dove pioveva sempre e gli ombrelli erano tutti neri.

Solo la piccola Marta non sapeva che cosa pensare. Un pensiero però le ronzava nella mente: “Quando piove, un ombrello è un ombrello, che sia giallo oppure nero, quello che conta è avere un ombrello”.

D’altra parte quel signore aveva proprio l’aria felice sotto il suo ombrello giallo e Marta si chiedeva il perché.

Un giorno, all’uscita di scuola, Marta si accorse di aver dimenticato a casa il suo ombrello nero. Scosse le spalle e si incamminò verso casa a testa scoperta, mentre la pioggia le bagnava i capelli.

Dopo un po’ incrociò l’uomo dall’ombrello giallo che le propose sorridendo: “Vuoi ripararti?”. Marta esitava: se accettava e si riparava sotto l’ombrello giallo, tutti l’avrebbero presa in giro, ma poi  pensò: “Quando piove un ombrello è un ombrello: Che sia giallo oppure nero è sempre meglio avere un ombrello che non averlo per niente”.

Così accettò e si riparò sotto l’ombrello giallo accanto al signore gentile.

E allora Marta capì perché quel signore era sempre felice: sotto l’ombrello giallo il cattivo tempo non esisteva più! C’era un gran sole caldo nel cielo azzurro e degli uccellini che cinguettavano. Marta aveva un’aria così sbalordita che il signore scoppiò in una risata: “Lo so, anche tu mi prendi per un pazzo, ma voglio spiegarti tutto. Un tempo ero triste anch’io, in questo paese dove piove sempre. Avevo anch’io un ombrello nero. Ma un giorno, uscendo dall’ufficio, dimenticai l’ombrello e partii verso casa a testa scoperta. Per strada incontrai un uomo che mi propose di ripararmi sotto il suo ombrello giallo. Come te, esitavo, perché avevo paura di farmi notare, ma poi accettai perché avevo più paura di buscarmi un raffreddore. Mi accorsi che sotto l’ombrello giallo il cattivo tempo non esisteva più. Quell’uomo mi insegnò chele persone erano tristi perché non si parlavano da un ombrello all’altro. Poi improvvisamente quell’uomo se ne andò e mi accorsi che ero rimasto con il suo ombrello giallo in mano. Lo rincorsi, ma non riuscii più a trovarlo. Ho conservato l’ombrello giallo e il bel tempo non mi ha più lasciato”.

Marta esclamò: “Che storia! E non sente imbarazzo a tenersi l’ombrello di un altro?”. Il signore rispose: “No, perché so bene che questo ombrello è di tutti. Quell’uomo lo aveva senza dubbio anche lui ricevuto da qualcun altro”.

Quando arrivarono davanti alla casa di Marta si dissero arrivederci. Marta allora si accorse di tenere in mano l’ombrello giallo e cercò di rincorrere quel signore per restituirglielo, ma il signore gentile era già scomparso.

Così Marta conservò l’ombrello giallo, ma sapeva già che quell’ ombrello speciale avrebbe ben presto cambiato proprietario e sarebbe passato in tante altre mani, per riparare dalla pioggia tante altre persone e portare loro il bel tempo.   (Liana Manfrini)

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E CHE CASPITA!!!

 IL CLUB DEL  NOVANTANOVE….

C’era una volta un re molto triste che aveva  un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto. “Paggio”, gli chiese un giorno il re, “qual è il segreto della tua allegria?”. “Non  ho nessun segreto, signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di servirsi.. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto”.

Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: “Voglio il segreto della felicità del paggio!”.

“Non puoi carpire il segreto della sua felicità, ma se vuoi puoi sottrargliela”.

“Come?”.

“Facendo entrare il tuo paggio nel club del novantanove”.

“Che cosa significa?”.

“Fa’ quello che ti dico…”.

Seguendo le indicazioni del suo consigliere, i l re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d’oro e la fece recapitare al saggio con un messaggio che diceva: “Questo tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato”.

Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle: dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta… novantanove!

Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante. “Sono stato derubato!” gridò. “Sono stato derubato! Maledetti!”.

Cercò di nuovo sopra il tavolo, nella borsa, per terra, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili… ma non trovò quello che cercava.

Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d’oro. Soltanto novantanove. “Novantanove monete. Sono tanti soldi”, pensò,. “Ma mi manca una moneta”. Novantanove non è un numero completo, pensava.

“Cento è un numero completo, novantanove no!”.

La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fronte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.

Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci anni no, ma ce l’avrebbe  fatta!

Il paggio era entrato nel club del novantanove…

 Non passò molto tempo che il re lo licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore. (Bruno Ferrero)

E se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro? E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla. Il numero cento non è più rotondo del novantanove.

E’ soltanto un tranello, un tranello della nostra mente, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto più del necessario, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati. Un tranello per non farci mai smettere di spingere, troppo affannati, il carretto.

Quante cose cambierebbero se potessimo goderci i nostri tesori così come sono: marito, moglie, figli, cari, suocere, amici…

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ALLE PRESE CON IL DOLORE (rimedio)

IL SALE DELLA VITA

 Un giorno, un saggio maestro indù, stanco di sentire le lamentele di un suo allievo, decise di dargli una lezione. Lo inviò a cercare una manciata di sale, metterlo in un bicchiere d’acqua  e bere.

“Che sapore ha?”, chiese quindi il maestro.

“E’ salata e amara!”, rispose l’allievo.

Allora il maestro, sorridendo, gli chiese di accompagnarlo sulla riva di un lago, di lanciare la stessa quantità di sale nell’acqua e poi di berne un poco. Così fece il giovane.

“Che sapore ha?”, chiese di nuovo il maestro.

“E’ molto fresca”.

“E’ salata?”.

“Niente affatto!”

Allora il maestro gli disse: “Il dolore nella vita è come il sale. La quantità di dolore è sempre la stessa, ma il grado di amarezza che percepiamo dipende dal recipiente nel quale versiamo la pena. Pertanto, quando provi dolore, tutto quello che devi fare è espandere la tua prospettiva delle cose.

Smetti di essere un bicchiere d’acqua e trasformati in un lago”.

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RESILIENZA?

“La tempesta può disperdere i fiori, ma non può  distruggere i semi”.          (Gibran )                

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ALLE PRESE CON IL DOLORE…

                   CENTOCELLE – AMICI DELL’ISTITUZIONE TERESIANA

                                            (16 gennaio 2019)

TEMA DELL’INCONTRO: quando il mistero del dolore minaccia le buone relazioni.

  La parola “mistero” è una delle parole che maggiormente si presta ad interpretazioni di vario genere.

   Talvolta la si accosta ad enigma, a problema irrisolvibile, a somma complicazione di eventi senza via d’uscita.

   A noi, nell’incontro di oggi, è sufficiente stare con i piedi per terra onde evitare equivoci o interpretazioni tra loro, talvolta contrastanti.

   Ed avere i piedi per terra (con lo sguardo rivolto al Cielo) significa semplicemente

farsi una ragione di ciò che all’apparenza sembra non avere alcuna spiegazione.                                Occorre cioè, umilmente ricordare che “Ci vuole tutta una vita per capire che non si può capire tutto” e “L’ultimo passo della ragione è quello di ammettere che vi sono cose che la superano” e “Se togliete il mistero, non ci capirete più nulla” e “”Chi non accetta il mistero non è degno di vivere”.

   Di “misteri”, nella storia della salvezza, ce ne sono a bizzeffe, tanto che, nel santo rosario vengono differenziati in “gaudiosi”, “luminosi”, “dolorosi”, “gloriosi”. Non si è ancora trovato posto per i “misteri curiosi”, ma questa è un’altra storia!

   Ed è proprio quanto  accade di “doloroso” nella vita di ognuno di noi, contro le nostre pur buone aspettative  e in barba a tutti i buoni progetti, a mettere a rischio la serenità del vivere e le buone relazioni.

   Succede, non così raramente purtroppo, che un evento di dolore, infatti, anziché cementare una relazione (tra marito e moglie o con la vita in generale) procuri delle crepe nella medesima fino al punto di romperla del tutto. Ed anche questo si configura come “mistero” che si aggiunge a “mistero”.

   La letteratura psicologica ci avverte: “Il modo con cui scegliamo di vedere il mondo crea il mondo che vediamo”. C’è da riflettere.

   Sono state studiate anche le fasi che seguono ad  un evento doloroso (separazione, morte…): negazione, rabbia, patteggiamento, stato depressivo, accettazione. Dove per “accettazione” si intende ingoiare il rospo… e digerirlo, fare il morto a galla nell’oceano del mistero senza affogare alla ricerca di profondità, confini dell’oceano.

   Occorre cioè chiedere allo Spirito una delle grazie più curiose che si possano immaginare, la grazia dell’appetito di mistero (di cui l’anima è ghiotta). Occorre non affannarsi a cercare spiegazioni, ma predisporci interiormente ad essere buongustai di mistero. Una domanda di grazia, insistente e quotidiana perché la nostra fragilità ci può giocare brutti scherzi.

   Ricordiamo infine una massima di Pierre Charles: “Dio non ci risparmia la sofferenza, ma ci protegge nella sofferenza”.

“Come” vien da chiederci, ma anche questo è mistero!     (www.gigiavanti.com)

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