Archivi del mese: aprile 2012

C’E’ POCO DA RIDERE…alle spalle degli altri! (S.A.D.A.E ovvero Sindrome di Attenzione Deficitaria Attivata Dall’Eta’)

E’ una malattia che si manifesta solitamente così…

Decido di lavare la macchina. Mentre mi avvio al garage vedo che c’è postra sul mobiletto dell’entrata. Decido di controllare prima la posta. Lascio le chiavi della macchina sul mobiletto per buttare le buste vuote e la pubblicità nella spazzatura e mi rendo conto che  il secchio è strapieno. Visto che tra la posta ho trovato una fattura decido di approfittare del fatto che esco a buttare la spazzatura per andare fino in banca (che sta dietro l’angolo) per pagare la fattura con un assegno. Prendo dslla tasca il porta assegni e vedo che non ho assegni. Vado su in camera a prendere l’altro libretto, e sul comodino trovo una lattina di coca cola che stavo bevendo poco prima e che me l’ero dimenticata lì. La sposto per cercare il libretto degli assegni e sento che è calda… allora decido di portarla in frigo. Mentre esco dalla camera vedo sul comò i fiori che mi ha regalato mio figlio e mi ricordo che li devo mettere in acqua. Poso la coca cola sul comò e lì trovo gli occhiali da vista che è tutta la mattina che cerco. Decido di portarli nello studio e poi metterò i fiori nell’acqua. Mentre vado in cucina a cercare un vaso e portare gli occhiali sulla scrivania, con la coda dell’occhio improvvisamente vedo un telecomando. Qualcunoi deve averlo dimenticato lì (ricordo che ieri sera siamo diventati pazzi cercandolo). Decido di portarlo in sala (al posto suo!), appoggio gli occhiali sul frugo, non trovo nulla per i fiori, prendo un bicchiere alto e lo riempio di acqua… (intanto li metto qui dentro). Torno in camera con il bicchiere in mano, poso il telecomando sul comò e metto i fiori nel recipiente, che non è adatto naturalmente… e mi cade un bel po’ di acqua… (mannaggia…), riprendo il telecomando in mano e vado in cucina e prendere uno straccio. Lascio il telecomando sul tavolo della cucina… ed esco… e cerco di ricordare che dovevo fare con lo straccio che ho in mano…

CONCLUSIONE:

SONO TRASCORSE DUE ORE – NON HO LAVATO LA MACCHINA – NON HO PAGATO LA FATTURA – IL SECCHIO DELLA PSAZZATURA E’ ANCORA PIENO – C’E’ UNA LATTINA DI COCA COLA CALDA SUL COMO’ – NON HO MESSO I FIORI IN UN VASO DECENTE – NEL PORTA ASSEGNI NON C’E’ UN ASSEGNO – NON TROVO PIU’ IL TELECOMANDO DELLA TELEVISIONE NE’ I MIEI OCCHIALI – C’E’ UNA MACCHIACCIA SUL PARQUET IN CAMERA DA LETTO – E NON HO IDEA DI DOVE SIANO LE CHIAVI DELLA MACCHINA.

 MI FERMO A PENSARE: come può essere? Non ho fatto nulla tutta la mattina, ma non ho avuto un momento di respiro… mah! Fammi un favore, manda questo messaggio a chi conosci perchè io non ricordo più a chi l’ho mandato. E non ridere alle mie spalle perchè se ancora non ti è successo… ti succederà molto prima di quanto tu non creda!

 

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VIVERE LA VITA ALL’INCONTRARIO…semplificherebbe la vita! (Woody Allen)

La vita dovrebbe essere vissuta al contrario. Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo e così, tricchete tracchete, il trauma è bello che superato.

Quindi ti svegli in un letto d’ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno. Poi ti dimettono perchè stai bene e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio. Con il passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono. Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d’oro.

Lavori quarat’anni finchè non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa. Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finchè non sei bebè.

Quando sei sufficientemente picccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene.

Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni.

E alla fine abbandoni questo mondo in  un orgasmo.

 

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SE POTESSI VIVERE DI NUOVO… (Yorge Luis Borges)

“Se potessi vivere di nuovo la mia vita… Nella  prossima cercherei di commettere più errori. Non cercherei di essere così perfetto, mi rilasserei di più. Sarei più sciocco di quanto non lo sia mai stato, di fatto prenderei ben poche cose sul serio. Sarei meno igienico. Correrei più rischi,  farei più viaggi, contemplerei più tramonti, salirei più montagne, nuoterei pià fiumi, andrei in più luoghi dove non sono mai stato, mangerei più gelati e meno fave, avrei più problemi reali e meno problemi immaginari.

Io fui uno di quelli che vissero ogni minuto della loro vita sensati e con profitto. Certo che mi sono preso qualche momento di allegria. Ma se potessi tornare indietro, cercherei soltanto di averemomentibuoni.Perchè, se non lo sapete, di questo è fatta la vita, di momenti. Non perdere l’adesso.

Io ero  uno di quelli che mai andavano da nessuna parte senza un termometro, una borsa dell’acqua calda, un ombrello ed un paracadute… Se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero. Se potessi tornare a vivere comincerei ad andare scalzo dall’inizio della primavera e resterei scalzo fino alla fine dell’autunno. Farei più giri in calesse, guardarei più albe, e giocherei con più bambini… se mi trovassi di nuovo la vita davanti.

Ma, vedete, ho 85 anni e so che sto morendo.

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I CALDI E MORBIDI (ovvero come decidersi a vivere una affettività “autentica” con animo di “bambino”)

C’era una volta, al di là dei monti in una splendida vallata, un villaggio dove vivevano Raggio di Sole e Luna Splendente. In questo villaggio tutti vivevano felici e contenti perchè quando un bambino veniva alla luce riceveva in dotazione un sacchetto  contenente dei caldi e morbidi. I caldi e morbidi erano delle cosine grandi come il pugno di una bimba, di colore arancione, con due antennine rosse. Quando venivano messi addosso ad una persona , la facevano sentire tutta calda e morbida, la fecavano stare bene. Il sacchetto dato in dotazione ai bambini fin dalla nascita non si esauriva mai, cosicchè ognuno ne poteva darne quanti ne voleva… In quel villaggio tutti si scambiavano i caldi e morbidi e per questo tutti vivevano contenti.

Eccetto la strega, che abitava e viveva in cima alla montagna. La quale, ovviamente, non potendo distribuire le sue pozioni magiche e i suoi incantesimi poichè nel villaggio tutti stavano bene, era rosa dall’invidia. Cosicchè un giorno la strega pensò bene di travestirsi da signora per bene per andare giù al villaggio ad incontrare Raggio di Sole. Lo trovò proprio nel bosco, intento a fare legna. Gli si avvicinò, lo riverì e gli chiese: “Come vanno le cose al villaggio?”. “Bene”, rispose lui continuando a lavorare di accetta. “Come stannno tua moglie e i tuoi figli?”, chiese nuovamente la strega: “Ottimamente”, soggiunse Raggio di Sole “dal momento che ci scambiamo sempre tanti caldi e morbidi” . “Oh, bene – esclamò la strega, alzando la voce – sono contenta per te. Ma non hai mai pensato che quel sacchetto di caldi e morbidi un giorno potrebbe esaurirsi?”. E così dicendo la strega se ne volò via sulla sua scopa. Raggio di Sole rimase un attimo perplesso, con  l’accetta a mezz’aria, poi raccolse la legna e si avviò verso casa. Arrivato dinanzi alla porta di casa vide i suoi figli che scambiavano i caldi e morbidi con i figli dei vicini e scosse la testa.

Alla sera, a letto, mentre scambiava i suoi caldi e morbidi con Luna Splendente, improvvisamente si ricordò delle parole della signora nel bosco e disse a sua moglie: “E se veramente i caldi e morbidi che sono nel sacchetto, dovessero finire?”. Con questo pensiero tutti e due si addormentarono. Il mattino dopo Luna Splendente chiamò i suoi figli e ordinò loro di usare economia di caldi e morbidi. “Non si sa mai, potrebbero finire”, insinuò: Così la voce si sparse di porta in porta. I figli di Raggio di Sole incominciarono a non darne più ai loro amici; questi non li diedero ad altri. E così via… pian piano i caldi e morbidi venivano tenuti nascosti nel sacchetto. Finchè un giorno un bambino morì. E ancora un altro. Tanti bambini morirono perchè non ricevevano più i loro caldi e morbidi.

Allora tutto il villaggio si precipitò dalla strega per chiedere aiuto. La strega si fregò le mani e distribuì le sue pozioni magiche e i suoi incantesimi. Poi consegnò a ciascuno un  sacchetto con dentro dei freddi e ruvidi. I freddi e ruvidi avevano la medesima forma dei caldi e morbidi, ma erano più scuri e avevano delle antennine verdi.  Quando venivano dati a una persona la facevano sentire tutta fredda e ruvida… ma intanto i bambini non morivano più. Così nel villaggio di Raggio di Sole e di Luna Splendente ora tutti si scambiavano dei freddi e rividi per non morire. Raramente qualcuno, qualche ragazzo innamorato, continuava a dare di nascosto il suo caldo e morbido.

Un giorno passò di lì un mercante, proveniente da “molte nazioni”, il quale subitò intuì e sfruttò la situazione distribuendo dei caldi e morbidi di plastica. I quali non facevano nulla; non facevano sentire nè bene, nè male, ma tanto valva adattarsi.

Caldi e morbidi autentici non se ne potevano dare per paura che finissero. Freddi e ruvidi non facevano più morire i  bambini, ma facevano stare male (eccetto la strega che stava meglio). Allora, ecco, diamoci tanti caldi e morbidi di plastica! Ben presto il mercante della multinazionale se ne andò, ma gli abitanti impararono a costruirsi da loro i caldi e morbidi di plastica.

Finchè  un giorno arrivò nel villaggio, portata sulle ali del vento, una donna. Una bellissima donna, dai lunghi capelli e dagli occhi splendenti. Questa meravigliosa signora arrivò nella piazza del villaggio dove stavano giocando alcuni bambini. Si fermò in mezzo a loro e sussurrò loro sorridendo: “Bambini, non è vero che i caldi e morbidi che sono nel sacchetto finiscono. Essi durano per sempre”. Immaginatevi la gioia dei bambini, i quali non aspettavano altra occasione. Incominciarono subito a distribuirsi i loro caldi e morbidi con gioia suscitando però lo stupore e l’indignazione dei grandi… Ben presto fu lanciata una campagna di calunnie e di insinuazioni contro quella donna portata dal vento, la quale se ne dovette andar via. Si riuinirono  allora gli anziani del villaggio e decretarono che i caldi e morbidi (quelli autentici) non si potevano dare  prima di una certa età e a certe condizioni. Stabilirono delle norme con cui si limitava ulteriormente l’uso dei caldi e morbidi a certe circostanze.

Frattanto i bambini, incuranti di tutti e di tutto, continuavano a distribuirsi i loro caldi e morbidi autentici.

Non si sa ancora, a tutt’oggi, come andarono a finire le cose nel villaggio di Raggio di Sole e di Luna Splendente… se riuscì ad avere la meglio la spontaneità e la autenticità dei bambini sulle leggi e le norme dei grandi…

Ma forse una risposta c’è a questa domanda e potrebbe stare proprio custodita nel cuore di bambino che ognuno ha dentro di sè. (Citata nel testo FAMIGLIA OGGi di Luciano Cupia,  omi).

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CUORE DI AQUILA (ovvero …soddisfare i bisogni di protezione-tenerezza e di incoraggiamento-fermezza per la crescita sana dei figli. Il cosiddetto “binario educativo” composto dalla rotaia dei “no” protettivi – se sono teneri come lo è l’utero – e dei “sì” incoraggiantì – se sono fermi e decisi – come accade al momento del distacco dall’utero)

Un uomo, attraversando la foresta trovò un aquilotto, lo portò a casa e lo  mise nel pollaio, dove imparò presto a beccare il mangime delle  galline e a comportarsi come loro. Un giorno un naturalista, che si trovò a passare di là, domandò come mai un’aquila, la regina dei cieli, si fosse ridotta a vivere nel pollaio con le galline.”Perchè l’ho nutrita con mangime di gallina e le ho insegnato a essere una  gallina, ed essa non ha mai imparato a volare”, replicò il proprietario. “Tuttavia – insistette il naturalista – possiede ancora il cuore di un’ aquila e può certamente imparare a volare”.

Dopo aver parlato a lungo, i due si trovarono d’accordo nel volere scoprire se ciò fosse possibile.

Il naturalista prese con delicatezza l’aquila fra le braccia e le disse: “Tu appartieni al cielo, non alla terra. Spiega le tue ali e vola”. Ma l’aquila si sentiva piuttosto confusa. Non sapeva bene chi fosse e, vedendo le galline che beccavano il mangime, saltò giù e si unì a loro.

Per niente scoraggiato, il naturalista tornò il giorno dopo a riprendere l’aquila, la portò sul tetto della casa e la incitò di nuovo divendo: “Tu sei un aquila, apri le tue ali e vola”. Ma l’aquila aveva paura di questo nuovo se stesso che non conosceva il mondo; ancora una volta saltò giù e andò a beccare il mangime.

Il terzo giorno il naturalista si alzò di buon’ora, andò a prendere l’aquila e la portò sulla cima di una montagna. Lì sollevò in alto la regina degli uccelli e cercò di invcoraggiarla dicendo: “Sei un’aquila, appartieni al cielo e non alla terra, apri ora le tue ali e vola”. L’aquila si guardò intorno, guardò in giù verso il pollaio, guardò in sù verso il cielo. Ma non volò ancora. Allora il naturalista la sollevò verso il sole. L’aquila cominciò a tremare e piano piano aprì le ali. Infine, con un grido trionfante, spiccò il volo verso il cielo.

Può darsi che l’aquila ricordi ancora le galline con nostalgia; può darsi che di tanto in tanto torni a fare visita al pollaio. Ma per quanto si sa non è più tornata a vivere come una gallina. Era un’aquila, sebbene fosse stata nutrita e allevata come una gallina. (Anonimo)

 

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DUE CUORI.. (ovvero…perchè le persone gridano quando sono arrabbiate)

Un giorno il saggio Meher Baba fece ai suoi uomini questa domanda: “Perchè le persone gridano quando sono arrabbiate?”. Ci pensarono qualche istante-“Perchè perdiamo la calma” disse uno di loro, “Per questo gridiamo”. “Ma perchè gridare quando l’altra persona ti sta accanto?” chiese Baba. “Non le puoi parlare a voce bassa? Perchè urli ad una persona quando sei arrabbiato?”. Gli uomini diedero altre risposte, ma nessuna di esse soddisfaceva Baba.

Alla fine spiegò: “Quando due persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto. Per coprire la distanza devono urlare per potersi sentire. Più arrabbiate sono, più dovranno gridare per ascoltarsi attraverso questa grande distanza. Poi chiese: “Che succede quando due persone si innamorano? Non gridano, ma parlano dolcemente. Perchè?  I loro cuori sono molto vicini. La distanza tra di loro  è molto piccola”. Saba continuò: “Quando si innamorano sempre di più, che succede? Non parlano, ma sussurrano e si rivolgono ancora di più al loro amore. Alla fine non avranno nemmeno più bisogno di sussurrare, si guarderanno e basta. E’ così quando due persone si amano”. In fine Baba disse loro: “Quando discutete, non lasciate che i vostri cuori si allontanino, non dite parole che aumentino la distanza, arriverà un giorno in cui sarà così tanta che non riuscirete più a trovare la strada del ritorno”.

 

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LA METRICA DELL’AMORE (Sandro Montanari)

Quelle timide risa

accese da baci impacciati

e quelle storie inverosimili

che raccontavo

con la serietà di un bambino

per non lasciarti fuggire

prima dei rintocchi di mezzanotte

sono qui con noi

se solo chiudo gli occhi

e stringi le mie mani

in questa cara soffitta

ove echi di parole sottovoce

e di carezze incerte e incontenibili

carpiti al fremito  del desiderio

ancora disegnano incantesimi

d’oriente sui vetri appannati

dai nostri respiri nudi.

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IL SEGRETO DEL POZZO (“Sappi che quando l’uomo si ostina a cambiare qualcosa negli altri, è qualcosa in se stesso che deve cambiare. L’acqua non si preoccupa di cambiare la forma del recipiente che la contiene”)

 

Sembrava un giorno come tanti altri di quella calda estate… ma quel giorno un vecchio ai piedi di un grande albero mi raccontò una storia… una strana storia alla quale lì per lì non diedi molta importanza. Da allora sono passati tanti anni. Quel vecchio non l’ho più incontrato, ma tante volte ho vista danzare nella mia memoria la storia che mi raccontò.

E’ una strana storia che narra di un uomo che camminava. Era da bambino che camminava, tant’è che ormai conosceva tutta la sua terra.  Un giorno, sentì al mignolo del piede destro un dolore che, nel camminare, si faceva sempre più forte.  Decise allora di andare dal calzolaio, La scarpa, per via della pioggia del giorno precedente,  si era evidentemente ristretta proprio in quel punto, all’altezza del mignolo. Bisognava solo renderla meno aderente al piede. “Mi allarghi questa scarpa, qui… è troppo stretta”, disse al calzolaio. Il calzolaio si mise al lavoro e dopo un po’ restituì la scarpa: “Ecco fatto, signore”. La calzò. In effetti era scomparso quel terribile dolore. Sollevato, pagò e riprese il cammino. Ma dopo un po’ cominciò a sentire un fastidio al mignolo. E subito dopo il fastidio si trasformò in dolore. Era un dolore insopportabile. Sofferente ritornò, zoppicando, dal calzolaio e gli urlò irritato: “Devi allargare di più questa scarpa, in questo punto”. Il calzolaio, senza batter ciglio, prese i suoi arnesi e, con pazienza, iniziò a modellare la scarpa. “Ecco fatto, signore”, gli disse dopo più di due ore di lavoro. La scarpa aveva senza dubbio cambiato forma. L’uomo la indossò. Fece veloci passi in circolo, intorno alla sedia. Provò addirittura a saltare, di qua e di là, con balzi sempre più ampi, come una rana alla ricerca dello stagno. Ora ne era certo, non sentiva più quel lancinante dolore al mignolo. Riprese,  allora, fischiettando a camminare per la sua strada. Trascorsero, questa volta, solo pochi minuti: il dolore si ripresentò con tutta la sua forza. L’uomo, trovandosi nei pressi di una bottega di scarpe, decise di risolvere una volta per tutte il problema comperando un paio di scarpe nuove, più larghe di quelle che aveva ai piedi e che, soprattutto, non si restringessero con la pioggia. Entrò nella bottega e, confidando il suo problema al bottegaio, iniziò a provare vari tipi di scarpe. Tutte però, fatti pochi passi,  gli provocavano quell’incredibile dolore al mignolo.

Erano trascorse tre estenuanti ore. Un vecchio, seduto su un masso appena fuori l’uscio della bottega,  aveva assistito,  in silenzio, a tutta la scena. Aveva visto le smorfie sofferenti dell’uomo e intuito le imprecazioni a bassa voce del bottegaio, stanco di salire e scendere dalle scale e di correre da  una parte all’altra alla ricerca di scarpe sempre migliori e raffinate.. Mentre l’uomo, visibilmente spossato,  si asciugava con la mano il sudore dalla fronte in attesa dell’ennesimo paio di scarpe da provare, il vecchio gli si avvicinò e gli soffiò nell’orecchio. “Signore, mi venga a trovare e le risolverò il problema”.

Non fece in tempo neanche a guardarlo bene in viso o a chiedergli il nome o perché si interessasse così tanto alle sue scarpe… Il vecchio era agilmente uscito dalla bottega  ed era scomparso tra le mille vie animate del paese. Gli era rimasto in mano un biglietto spiegazzato con sopra scritto in bella grafia. “Il pozzo”. Ricordava che c’era solo un pozzo in quel paese: si trovava nella piazza.

Ai piedi del pozzo sedeva, alla frescura, il vecchio: “Sei arrivato al momento giusto… siedi qui…”, gli disse. “Ma io vorrei sapere che cosa…”. “Non è questa l’ora delle parole”, lo interruppe bruscamente il vecchio, indicandogli il masso su cui sedere.

Gli tolse la scarpa e dal pozzo attinse l’acqua con la quale lavò il piede. Vi spalmò sopra un impasto di erbe medicamentose. In seguito, con arnesi di pietra e di legno, cominciò a disegnare sul piede misteriose figure geometriche e riprese a lavarlo e ad ungerlo con i suoi olii.

Il sole era ormai tramontato e, al bagliore del crepuscolo, il vecchio finalmente disse: “Ora il piede non ti farà più male”. Ci fu un lungo silenzio, poi aggiunse: “Prima che io vada devo confidarti un segreto: sappi che quando l’uomo si ostina a cambiare qualcosa negli altri, è qualcosa in se stesso che deve cambiare. L’acqua non si preoccupa di cambiare la forma del recipiente che la contiene”. E scomparve tra le mille vie deserte del paese.

L’uomo fece un cenno con le due braccia come per stringere e ringraziare il vecchio che generosamente aveva placato il suo dolore.

Ma fu solo con l’alba che scoprì con stupore di essere da ore in cammino lungo una strada che non conosceva…   (SANDRO MONTANARI)

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L’OMBRELLO GIALLO (ovvero…Se quando piove sei triste… cambia ombrello!)

   C’era una volta un paese grigio e triste dove, quando pioveva, tutti gli abitanti giravano per le strade con degli ombrelli neri. Sempre rigorosamente neri. E sotto l’ombrello tutti avevano una faccia aggrondata e triste. Come del resto è giusto che sia sotto un ombrello nero.

   Ma un giorno che la pioggia scrosciava, proprio nell’ora di punta, si vide circolare un signore un po’ bizzarro che passeggiava sotto un ombrello giallo. E come se non bastasse, quel signore sorrideva. Alcuni passanti lo guardavano scandalizzati e mugugnavano: “Guardate che indecenza! E’ veramente ridicolo con quel suo ombrello giallo. Non è serio. La pioggia invece è una cosa seria e un parapioggia deve essere nero”. Altri montavano in collera e dicevano forte: “Ma che razza di idea è quella di andare in giro con un ombrello giallo?. Quel tipo è solo un esibizionista, uno che vuol farsi notare a tutti i costi. Non è per niente divertente!”.

   In effetti non c’era niente di divertente in quel paese, dove pioveva sempre e gli ombrelli erano tutti neri. Solo la piccola Marta non sapeva che cosa pensare. Un pensiero le ronzava però nella mente. “Quando piove,  un ombrello è un  ombrello, Che sia giallo oppure nero,  quello che conta è avere l’ombrello”. D’altra parte quel signore aveva proprio l’aria felice sotto il suo ombrello giallo e Marta si chiedeva il perché.

   Un giorno, all’uscita di scuola, Marta si accorse di aver dimenticato il suo ombrello nero a casa. Scosse le spalle e si incamminò verso casa a testa scoperta, mentre la pioggia le bagnava i capelli. Dopo  un po’ incrociò l’uomo dall’ombrello giallo che le propose sorridendo: “Vuoi ripararti?”. Marta esitava: se accettava e si riparava sotto l’ombrello giallo, tutti l’avrebbero presa in giro, ma poi pensò: “Quando piove un ombrello è un  ombrello. Che sia giallo  oppure nero è sempre meglio avere un ombrello che non averlo per niente”. Così accettò e si riparò sotto l’ombrello giallo accanto al signore gentile.

   E allora Marta capì perché quel signore era sempre felice: sotto l’ombrello giallo il cattivo tempo non esisteva più! C’era un gran sole caldo nel cielo azzurro e degli uccellini che cinguettavano. Marta aveva un’aria così sbalordita che il signore scoppiò in una risata: “Lo so, anche tu mi prendi per un pazzo, ma voglio spiegarti tutto. Un tempo ero triste anch’io, in questo paese dove piove sempre. Avevo anch’io un ombrello nero. Ma un giorno, uscendo dall’ufficio,  dimenticai l’ombrello e partii verso casa a testa scoperta. Per strada incontrai un uomo che mi propose di ripararmi sotto il suo ombrello giallo. Come te, esitavo,  perché avevo paura di farmi notare, ma poi accettai perché avevo più paura di buscarmi  un raffreddore. Mi accorsi che sotto l’ombrello giallo il cattivo tempo non esisteva più.  Quell’uomo mi insegnò che persone erano tristi perché non si parlavano da un ombrello all’altro. Poi improvvisamente l’uomo se ne andò e mi accorsi che ero rimasto con il suo ombrello giallo in mano.  Lo rincorsi, ma non riuscii più a trovarlo. Ho conservato l’ombrello giallo e il bel tempo non mi ha più lasciato”.

Marta esclamò: “Che storia! E non sente imbarazzo a tenersi l’ombrello di un altro?”. Il signore rispose: “No, perché so bene che questo ombrello è di tutti. Quell’uomo lo aveva senza dubbio anche lui ricevuto da qualcun altro”.

   Quando arrivarono davanti alla casa di Marta si dissero arrivederci. Marta allora si accorse di tenere in mano l’ombrello giallo e cercò di rincorrere quel signore per restituirglielo, ma il signore gentile era già scomparso. Così Marta conservò l’ombrello giallo, ma sapeva già che quell’ombrello speciale avrebbe ben presto cambiato proprietario e sarebbe passato in tante altre mani, per riparare dalla pioggia tante altre persone e portare loro il bel tempo. (Liana Manfrini)  

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LA STORIELLA DEL CRISTALLO (ogni figlio ha un suo proprio destino di libertà…)

C’era una volta una famiglia di cristalli di rocca perfetti, levigati e trasparenti. La specialità di ciascuno di loro era quella di lasciarsi attraversare dalla luce che ricevevano dall’alto.  Avevano una risposta appropriata per ogni tipo di luce: erano perfettamente adattati, bene educati, attenti a non deludere le aspettative…La luce era forte: risplendevano lucenti come il sole. La luce era debole: la risposta era pacata, rispettosa. Davano in misura che ricevevano. Erano ammirati ed invidiati da tutti i sassi del reame, con i quali, tra l’altro, erano molto attenti a non confondersi. Questo lo avevano imparato molto presto, fin da bambini. Ogni mamma cristallo, infatti, raxccomandava vivamente di  non giocare con i sassi  perchè questi ultimi avevano un caratteraccio, erano dure e attaccabrighe e se si arrivava allo scontro diretto non avevano niente da perdere… Al massimo ne sarebbero usciti un po’ ammaccati, ma tutto lì. Per i cristalli invece questo rappresentava un vero pericolo: scontrandosi con i sassi  rischiavano di perdere la loro levigatura, di divenire imperfetti e bitorzoluti, finendo con il perdere quella limpidezza che li rendeva così ammirati e splendenti. Ogni buon cristallo era consapevole di ciò e per questo se ne viveva tranquillo intrattenendosi con i suoi simili dalle maniere delicate, facendo bella mostra di sè. Ma i guai, si sa, possono capitare anche nelle migliori famiglie.

Un giorno, nella dinastia dei cristalli, venne alla luce uno strano cristallino. Era piccolo e duro. Non era perfetto e levigato come i suoi consanguinei. In più aveva un carattere veramente ribelle. Non voleva saperne di starsene lì in bella nostra sotto la luce… aveva voglia di giocare, di conoscere il mondo. Era la disperazione dei suoi genitori. Ben presto cominciarono a dirgli: “Sei cattivo, hai il cuore duro” e cercavano in tutti i modi di tenerlo chiuso… ma non era una impresa semplice. Il cristallo era una vera peste!. Come se non bastasse, il cristallino aveva una predilezione per tutti i sassi del reame… più erano malandati, scheggiati, imperfetti, più apparivano ai suoi occhi originali, affascinanti, colorati…

I vecchi saggi cristalli non facevano che ammonirlo dall’alto della loro esperienza: “Ti farai male a forza di essere così ribelle, ti ferirai, ti scheggerai; ricordati che, se anche sei duro, sei fragile. Adattati alle regole del buon cristallo. A forza di fare di testa tua, ti farai male, perderai delle parti di te…”

Ma il cristallino, più cocciuto che mai, continuava imperterrito. E così cominciò a farsi male davvero. Certe volte i sassi avevano veramente il cuore di pietra… E le sassoline poi…Il cristallino… che pene d’amore! Quante lacrime, delusioni, pezzetti di cuore lasciati qua e là. E ogni volta tornava a casa più malconcio. I suoi simili proprio non riuscivano a capirlo. Del resto, da subito era sembrato un po’ strano e più duro degli altri… finchè cominciarono a diagnosticargli delle strane malattie.

Ormai era diverso da tutti gli altri cristalli: loro così lisci e levigati, lui così spigoloso, scheggiato e ferito, si sentiva solo e incapace; del resto se era conciato in quel modo se l’era proprio voluta!

Finchè un giorno successe uno strano fatto: mentre si aggirava pensoso tra i suoi simili, un raggio di sole lo colpì in pieno proprio lì dove è il cuore e un arcobaleno di colori prese vita da quel cristallo malconcio. Ogni ferita dava origine a un colore diverso. Non era più la luce trasparente che lo attraversava, ma, a contatto con il suo cuore, la vita si rivelava in tutti i suoi colori. Per ogni pezzetto di sè che aveva perso in tanti scontri e nelle delusioni, ora la luce gli regalava un colore diverso:

viola, come la sofferenza, la tristezza, la paura, i l bisogno di chiedersi  “perchè…”

indaco, come l’indecisione, il non sapere che cosa fare…

blù, come il cielo di notte, come il meditare, come la solitudine…

verde, come l’erba dei prati che cresce senza che nessuno la coltivi…, come la speranza di ricevere senza chiedere…

giallo, come i campi di grano, come il poter raccogliere l’emozione dell’attimo che fugge…

arancio, come l’ottimismo, come il saper dire “ce la farò”…

rosso, come la passione, il fuoco che riscalda, come l’amore che tutto dona…

Allora il cristallino si illuminò e in un attimo comprese: la luce che dà la vita  lo aveva amato im modo particolare, lo aveva fatto nascere tra i cristalli perchè essi potessero comprendere che “lasciarsi attraversare dalla luce” non è rischiare niente, è non essere liberi, è non vivere… “Per quello che ricevo, io do”-

La vita è un’altra cosa: è scheggiarsi, incontrarsi, ferirsi, rischiare se stessi amando, incontrandosi nel buio di un altro perchè poi la luce riveli la vita in te.

Per questo la luce lo aveva amato. Il cristallino si guardò e si sentì nuovo. Non era più un cristallino di rocca; era diventato un magnifico brillante.   (Silvia Benedetti – Terni)

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