Archivi categoria: Aforismi, poesie

Una serie di scritti, suggestioni, aforismi ed emozioni raccolti nel corso del tempo

ANCHE PER SORRIDERE UN PO’…

“Chi non riesce ad accettare una sofferenza naturale va a inventarsi una sofferenza nevrotica”. (Jung)

“Tu solo ce la puoi fare, ma non ce la puoi fare da solo”.

“I fiori rossi del mio giardino sono tutti secati. Allora io sono andato dal fiore più grande e ci o deto: “Perché siete tutti secati? Allora il fiore che stava per morire ha aprito gli occhi e mi ha deto così: “Noi siamo tutti secati perché in questa casa non ci è amore e i fiori senza amore muoiono”.

Anno ragione i fiori del mio giardino perché la mia mamma e il mio babo non si vogliono bene”. (Un bambino di sette anni da R. Battaglia, LETTERE DAL DOMANI, S.E.I.)

SIAMO MARITO E MOGLIE

Vi sono donne che dicono: “Mio marito può pescare se desidera, ma i pesci li dovrà pulire lui”. Non io. A qualunque ora della notte e lo aiuto a disporre, pulire e salare i pesci. E’ così bello, noi due soli in cucina, ogni tanto i nostri gomiti si toccano. E lui dice cose del tipo: “Questo m’ha dato del filo da torcere. Luccicava come l’argento quando balzò in aria”. E mima il balzo con la mano. Attraversa la cucina come un profondo fiume, il silenzio del primo incontro. Infine i pesci sono sui piatti., si va a dormire. L’aria balugina d’argento, siamo marito e moglie. (Adelia Prado)

DIO PADRE CI HA CREATO (Pensieri sparsi dei bambini di Arzano)

“Dio ha fatto bene a crearci, solo che ha esagerato un po’”.

“E’ scontato che fu Dio a crearci”.

“O Dio o qualcun’ altro, qualcuno ci doveva creare”.

“Dio ci ha creati perché ci voleva più bene di prima”.

“Dio ha creato pure i negri solo che loro non lo sanno”.

“Dio ci ha creato  per spedirci con calma in Paradiso”.

“Dio ci creò antichissimi”.

“Dio prima creò l’uomo e poi lo addomesticò”.

“Dio ci ha creati per farci circolare”.

“Dio ci ha creato con molta cautela”.

“Se Dio ci ha creati, perché a mio fratello lo hanno messo in collegio?”.

“Ma se Dio sapeva che la maggior parte andava all’inferno, perché li ha creati?”.

“Al pronto soccorso, uno che si era  fatto male, non ci credeva che Dio ci  ha creati”.

ERA TROPPO TARDI

Non ho mai conosciuto il nonno, ma ho sempre saputo che era alto solo un metro e 53, mentre la nonna era una spilungona, alta un metro e 85. Un giorno, mentre sfogliavo un album di vecchie fotografie con  la nonna, mi sono resa conto della strana figura che dovevano fare insieme. Ho chiesto: “Nonna, come hai fatto a innamorarti di un uomo tanto più basso di te?”. Mi ha risposto: “Tesoro, ci siamo innamorati stando seduti, e quando mi sono alzata in piedi era troppo tardi”. (Rebecca W. Elwood)

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Le poesie di FRANCESCO

PENSIERO DÌ RONDINE

Una rondine volava libera e tranquilla

nel firmamento d’azzurro intenso.

Ad un tratto un proiettile le colpì un’ala

facendola piombare dall’alto in giù.

Fu poco prima d’arrivare a terra  che la rondine pensò:

Vorrei un giorno poter volare ancora in questo cielo,

ma   senza preoccupazione e paura.

Vorrei un giorno vagare ancora libera e felice come un pensiero

d’amore che attraversa lentamente e pacatamente il cuore.

Vorrei essere un pensiero libero nell’animo degli uomini

per volare di qua e di là rendendoli felici

e puliti da ogni preoccupazione.

Vorrei un giorno poter sorridere e portare il mio sorriso

alle persone tristi e disperate. Vorrei poter avere una bacchetta

magica che crea arcobaleni d’amore e d’amicizia

e sparare questi arcobaleni nelle persone per farle pentire.

E poi, in punto di morte, fece quest’ultimo pensiero:

Vorrei essere un pensiero, sì un pensiero, per poter rendere

felici le persone, vorrei essere qualcosa d’importante per qualcuno.

Poi finì di pensare e morì lì, sola sul prato, con l’ala sanguinante.

Chissà se i suoi pensieri potranno un giorno diventare realtà,

magari pensando che potrebbe essere ognuno di noi

quella dolce e povera rondine(Francesco Avanti 12 anni)

ALLA MORTE DEL NONNO  (Valmasino, 5.10.99)

E volando vai nelle nevi e sui ghiacciai rischiarando.
Io non so ove tu sia adesso.
Forse è un’illusione ed un pueril sognar che mi spinge a scorgerti volar.
E sulle inaccessibil cime delle montagne tue, nella notte voli.
E qualcuno laggiù ti piange,
piange la tua assenza
e freddo sarà il suo letto senza te,
fredda la sua anima.
E intanto volando vai a rincorrer gli ultimi raggi dorati
e d’albe dorate ti vestirai.

Sorridente e dolce mi piace immaginarti.

E a quel tuo amico che ti pianse e che mesto davanti al tuo giaciglio
ti salutò, riscalderai l’inverno con i tuoi ricordi.
Bruciano infatti più dolcemente i ricordi nella fredda
ed ancestrale notte novembrina.

Tu lo riscalderai con fiamma di memoria quando nel freddo mese
solo se ne starà davanti al suo camino e scorreranno le lacrime sul vetusto viso.

E la donna tua che piangendo ti preparò e scelse con amore la bella ed estrema veste
guarderai dalle finestre, fluttuando te ne andrai tra le nebbie e ad ella che col
capo chino nel solaio andrà a prendere un altro pezzo di legna per scaldare il vuoto,
tu le rivolgerai parole d’amore e con occhi colmi di gioia la lascerai “a presto”…
sussurrandole.
E poi ancora su’, tra le nevi perenni sulle cime che rosee al tramonto divengono
e giù nei boschi baciati dalle prime nevi, sugli alberi spogli e nelle caverne ventose,
nel tuo fiume, nelle tue valli voli; sì,  io è così che voglio immaginarti adesso
che volando vai nelle nevi e sui ghiacci rischiarando.
(Francesco Avanti, 18 anni)

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UNA DRITTA PER FILARE DRITTI

QUANDO UNA PROMESSA SI PUO’ MANTENERE

Supponi che uno con il vizio del gioco un bel mattino

si dica: “Faccio voto solenne e sacro di non giocare mai più.

Questa sera sarà l’ultima volta”.

Ebbene, amico mio, per quanto strano possa sembrare

il preferirei il comportamento opposto,

ossia che il giocatore dicesse: “Tutto il resto della mia vita

e tutti  i giorni io potrò giocare, ma questa sera lascio perdere”.

Soltanto così manterrebbe la promessa e sarebbe quasi

sicuramente salvo.(S. Kierkegaard)

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PERLE

                                    LE COSE CHE NON HAI FATTO

                        (Una delle più belle poesie d’amore di una ragazza

                            americana al tempo della guerra in Vietnam)

Ricordi il giorno che presi a prestito la tua macchina nuova e l’ammaccai? Credevo che mi avresti uccisa, ma tu non l’hai fatto.

E ricordi quella volta che ti trascinai alla spiaggia, e tu dicevi che sarebbe piovuto e piovve? Credevo che avresti esclamato: “Te l’avevo detto”. Ma tu non l’hai fatto.

Ricordi quella volta che civettavo con tutti per farti ingelosire e tu ti eri ingelosito? Credevo che mi avresti lasciata, ma tu non l’hai fatto.

Ricordi quella volta che rovescia la torta di fragole sul tappetino della tua macchina. Credevo che mi avresti picchiata, ma tu non l’hai fatto.

E ti ricordi quella volta che mi dimenticai di dirti che la festa era in abito da sera e tu ti presentasti in jeans? Credevo che mi avresti mollata, ma tu non l’hai fatto.

Sì, ci sono tante cose che non hai fatto. Ma avevi pazienza con me, e mi amavi, e mi proteggevi. C’erano tante cose che volevo farmi perdonare quando tu saresti tornato dal Vietnam. Ma tu non sei tornato.

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PER ADDETTI AL LAVORO… DI AIUTARE GLI ALTRI

COME ESSERE VERAMENTE DÌ AIUTO

  Viveva un tempo un vecchissimo cammelliere che aveva quattro figli. Quando fu sul letto di morte fece chiamare i figli e disse loro: “Vi insegno un’ultima cosa, forse la più importante. Ascoltate le mie ultime parole ed applicatele senza modifiche. Imparerete il più grande insegnamento sull’educazione.

   Quando morirò voglio che dividiate i cammelli che vi lascio in eredità: ½ al più grande di voi; ¼ al secondo; 1/8 al terzo e 1/10 all’ultimo.

   Fate come vi dico e ne trarrete un vero insegnamento per la vostra vita. Il vecchio morì e i figli restarono alquanto  interdetti. I cammelli erano 39.

   Dopo aver cercato di fare la divisione in tutti i modi, cominciarono a dubitare della salute mentale del padre e a litigare su come poter fare.

   Passò per la piazza del paese un vecchio saggio, si fermò ad abbeverare il proprio cammello alla fontana della piazza. Era vecchio, con una lunga barba bianca e un grande turbante azzurro.

   I ragazzi lo interpellarono chiedendo disperatamente il suo aiuto. Il saggio li ascoltò. Poi si grattò la barba, si guardò attorno e iniziò a dividere i cammelli.    Li divise esattamente come il padre aveva chiesto, poi riprese il suo cammino e ripartì. Come aveva operato il saggio? Ancora una volta la soluzione ci chiede di uscire dai soliti schemi.

   Il saggio aveva posto tra i loro anche il proprio cammello. Ora che i cammelli erano 40 (39 + il suo) aveva diviso così:

½ di 40 = 20

¼ di 40 = 10

1/8 di 40 = 5

1/10 di 40 = 4

Quindi 20 + 10 + 5 + 4 = 39

Il suo cammello non serviva più. Lo riprese e ripartì per la sua strada.

   Questa semplice e nota favoletta ci aiuta a cogliere l’insegnamento sull’atteggiamento da assumere nella comunicazione e relazione educativa.

   Dobbiamo mettere in comune il nostro cammello, ma sapendo che esso serve solo per mettere ordine nell’universo psichico del bambino (e non solo del bambino) e, svolto il suo compito, non serve più.

   A quel punto possiamo e dobbiamo riprendercelo. E’ nostro, a noi è indispensabile, al bambino (e non solo al bambino) non serve più.

   Insistere affinchè si tenga il nostro cammello sarebbe altrettanto sbagliato che rifiutarglielo quando ne ha bisogno.

   Pensate a quanti maestri e a quanti genitori, in particolari madri, definiscono se stessi in base al cammello donato a figli/scolari.

   Questo farà sì che, inconsciamente,  lotteranno perché il bambino non cresca, perché tenga ancora il loro cammello, perché essi si sono definiti come madri o come maestri, non come persone.

   Quando il bambino cresce vanno in crisi e perdono il loro ruolo che è andato a coincidere con la loro identità.

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QUESTA E’ BELLA

UNA POSSIBILE VIA DEL CAMBIO

Per anni sono stato un nevrotico.

Ero ansioso, depresso ed egoista.

E tutti continuavano a dirmi di cambiare.

E tutti continuavano a dirmi quanto fossi nevrotico.

Ed io mi risentivo con loro ed ero d’accordo con loro,

e volevo cambiare, ma non ci riuscivo,

per quanto mi sforzassi.

Ciò che mi faceva più male era che anche

Il mio migliore amico continuava a dirmi

quanto fossi nevrotico.

 Anche lui continuava a insistere che cambiassi.

Ed io ero d’accordo con lui

e non riuscivo ad avercela con lui.

E mi sentivo così impotente e intrappolato.

Poi un giorno mi disse: “Non cambiare, rimani

come sei, non importa se cambi o no. Io ti amo

così come sei; non posso fare a meno di amarti”.

Quelle parole suonarono come una musica

per le mie orecchie. “Non cambiare, non cambiare,

non cambiare, ti amo”.

E mi rilassai, mi sentii vivo.

E, meraviglia delle meraviglie, cambiai.

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IL CORPO GRIDA QUELLO CHE LA BOCCA TACE

La malattia è un conflitto

tra la personalità e l’anima:

Il raffreddore cola quando

il corpo non piange.

Il dolore di gola tampona

quando non è possibile

comunicare le afflizioni.

Lo stomaco arde quando

le rabbie non riescono ad uscire.

Il diabete invade quando la solitudine

duole. Il corpo ingrassa quando

l’insoddisfazione stringe.

Il mal di testa deprime quando i dubbi

aumentano. Il cuore allenta quando

il senso della vita sembra finire.

        Il petto stringe quando l’orgoglio schiavizza.

    La pressione sale quando la paura imprigiona.

      La febbre scalda quando le difese sfruttano

                le frontiere dell’immunità. Le ginocchia dolgono

                quando il tuo orgoglio non si piega.

                  E i tuoi dolori silenziosi?

                     Come parlano nel tuo corpo?

                              (A. Jodorowsky)

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LA RIVOLUZIONE DELL’ANIMA

   La nostra epoca passerà alla storia come l’epoca del rumore, del chiasso, del frastuono, dell’urlare anziché del parlare, del sussurrare. Rumore, chiasso, frastuono, urla fanno male all’anima che è invece tarata sul silenzio. Il silenzio è l’habitat naturale di vita  dell’anima. E’ urgente e necessario quindi abitare questo silenzio, ascoltarlo.

    Ma per poterlo ascoltare occorre prima di tutto saperlo e volerlo rispettare, il silenzio. Dico “rispettare” il silenzio e non “fare silenzio” perché il silenzio non viene generato da noi quando stiamo zitti e non facciamo chiasso. Il silenzio esiste di per sé, occorre solo accorgersi della sua presenza e magari dargli lo spazio che gli compete,rispettarlo quindi.

   Sarà certamente capitato a molti di leggere la scritta “Silentium” sul frontespizio delle porte d’ingresso di sacrestie, conventi e analoghi luoghi custodi di preziosità antiche.

   Ed è proprio questa parola “silenzio” a suggerire considerazioni, probabilmente proficue,  sia sul piano psicologico che su quello spirituale.

   La parola silenzio infatti ha come radice il verbo latino “silére” che sta a significare il fruscìo della spiga di frumento nel suo schiudersi  (ssst, ssst).

   Già si intravvede una curiosa connessione tra silenzio, alimento, ascolto e, spingendoci oltre i confini del puro razionale, si intravvedono anche concatenazioni più suggestive  tra queste parole quali, ad esempio “ascoltare in silenzio”, “ascoltare il silenzio”, “silenzio terapeutico”, “silenzio eucaristico”.Trovo scritto: “Le parole servono la mente, i gesti servono il cuore, il silenzio serve l’anima”.

    Il silenzio, appunto. Trovo anche, dall’esperienza della vita, l’espressione (usata, abusata e non di rado urlata da docenti d’ogni grado): “Fate silenzio”, quasi fossero gli ascoltatori a generarlo, tale silenzio.

   Il silenzio non viene generato nel momento che qualcuno ci intima di “stare zitti”, il silenzio esiste di per sé, è una sorta di DNA del creato, qualcosa di ontologico, qualcosa come il sorriso invisibile del Creatore; è l’alveo naturale dell’essere che s’è fatto divenire, una sorta del dipanarsi  silenzioso del boato del big bang.

    Un divenire che, incomprensibilmente o misteriosamente, ha gravato l’essere caricandolo di pesantezze chiassose, rumorose, fuorvianti, alienanti.

   Occorre soltanto la delicatezza relazionale di fare spazio al silenzio, l’accortezza di dargli il suo posto, di tenercelo alleato nel tessere le relazioni interpersonali, di sfruttarne al meglio le sue potenzialità. Il silenzio è il luogo dove l’anima e  il suo Creatore si trovano maggiormente a loro agio, è il loro habitat naturale, è il luogo privilegiato dello stare insieme a livello profondo, anche tra le persone.

   E ciò senza per nulla sottovalutare la parola e il gesto, ma al contrario per potenziarle dal di dentro,  per dar loro anima e senso integrali.

   La rivalutazione del “silenzio”, dell’ascolto silenzioso va, paradossalmente parlando,  nella direzione opposta alla tendenza della cultura odierna, al martellamento parolaio, all’urlato delle opinioni personali, all’ostentato e pavoneggiante autoreferenziale narcisismo ideologico per il quale ci si fa una propria idea del reale, ci  si innamora della medesima  e si finisce per affogarvici dentro, e va anche nella direzione opposta a quella dello squallido e stucchevole consumismo commerciale di gesti gonfi di vacuità seduttiva  o erotica.

   Ci sono luoghi privilegiati dagli amanti del silenzio, tipo monasteri e conventi ed eremi. Alla domanda sul ruolo dei monasteri e dei monaci, un priore di Camaldoli (padre Barban) ebbe a dire: “Il loro compito credo sia quello di tramandare una eredità preziosa: quella del silenzio”.

   La rivalutazione del silenzio favorisce ed incoraggia la rivoluzione culturale dell’anima, di quell’anima non dotata, per natura creata,  di potenziale di attrazione fatto di  rumore, di chiasso, di frastuono, di proclami, di denunce, di ostentazione vanitosa di nudità, di spogliarelli seducenti. 

   La potenzialità seduttiva di cui è dotata l’anima è fatta di ammiccamenti suadenti, di soavi movenze possibili ad essere colte soltanto elevandosi all’altezza delle vette dove il silenzio canta e l’aria è di cristallo.

   E’ a questo livello di relazione (che la letteratura psicologica e quella spirituale concordano nel definire livello “intimo”) che avviene il “mirabilis”, il meraviglioso, il miracolo della guarigione, della ripresa, della risalita dal fondo del soffrire o, quanto meno, il “mirabilis” del riuscire a vivere nella serenità del qui ed ora,  tenendo a bada lamentazioni, recriminazioni, sospiri dolenti che coprono come nuvole nere l’azzurro del cielo. Si ricordi: “Le nuvole passano, il Cielo rimane”. (Gigi Avanti)

Suggerimento bibliografico:

Roberto Sarah (Con Nicolas Diat) LA FORZA DEL SILENZIO (Contro la dittatura del rumore), Prefazione di   Benedetto XVI),  Cantagalli 2017)

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CE LA SI PUO’ FARE… VOLENDO

 Quando si è afflitti da sofferenze croniche che avvelenano la vita, è bene ricordare quanto le scienze umanistiche hanno scoperto per potercene in qualche misura liberare.   E’ bene tenere presente che la guarigione da queste sofferenze implica una serie di passaggi e che il passaggio da una fase all’altra non è automatico e che sono previste anche fasi regressive; pur tuttavia è conveniente sapere che il traguardo finale della quiete esistenziale è possibile raggiungerlo..

QUESTE SONO LE  FASI PER UNA GRADUALE  GUARIGIONE DA SOFFERENZE INTERIORI LEGATE AD EVENTI RITENUTI NEGATIVI:

  • Rifiuto o negazione: (non accetto di essere stato ferito, offeso)
  • Collera, rabbia: (me la prendo con altri per essere stato ferito, offeso)
  • Patteggiamento; (decido di passarci sopra,  ma soltanto a certe condizioni)
  • Depressione: (me la prendo con me stesso per aver permesso di ferirmi, offendermi)
  • Accettazione: (mi conviene accettare questa ferita per vivere un nuovo equilibrio)

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   Viene riconosciuto da tutta la letteratura scientifica che una dinamica di sofferenza relazionale più o meno cronica legata ad eventi della vita passata (ed anche recente) dipende maggiormente dall’idea o interpretazione che ci si è fatta di questo evento che non dall’evento medesimo.

   “Il modo  in cui scegli di vedere il mondo (nel caso nostro “il modo in cui scegli di interpretare un evento”) crea il mondo che vediamo”.

   Se si vuole comunque guarire veramente da questo malanno che inquina le relazioni nel presente occorre  una umiltà di fondo capace di riconoscere che non è il “rancore”  (la parola rancore richiama quella di  “rancido” quasi a voler dire che un sentimento tenuto al chiuso irrancidisce) a produrre  effetti positivi, bensì il perdono (perdonare non cancella il passato, ma apre a un presente non rancoroso e a un futuro migliore).

   Va da sé che la dinamica del perdono non attiene soltanto ad uno sforzo etico di buona volontà, ma tocca e coinvolge i livelli più profondi, quindi spirituali più che psichici, dell’animo umano. Il perdono è una grazia da chiedere a Dio.

   Ed è proprio a questo livello più profondo che “anima” (spirito) ed “animus” (psiche) possono incontrarsi per dare avvio a quel percorso di perdono finalizzato ad un benessere esistenziale nel qui ed ora della quotidianità.

   Il prezzo da pagare è quello di una sottile sofferenza (quasi doglie del parto della nuova persona che si vuole essere) dovuta alla espulsione dall’utero della propria mente di tutti quei “ricordi negativi”, di quelle “recriminazioni”, di quelle “sozzure” che avevano occupato, come scomodissimi inquilini morosi, tale utero mentale.

   Mi si dirà che “non è facile”, alla cui obiezione rispondo, con una velatura di paradosso, che andrebbe espulso dall’utero mentale anche quel “non è facile”.

(Gigi Avanti)

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CERCA DI ESSERE QUELLO CHE DESIDERI AVERE

             DESIDERIO DI AVERE O BISOGNO DI ESSERE?

    “I frutti dello Spirito sono comandamento di vita” (Familiaris Consortio n.9 – 1981)

Questa affermazione fulminante e perentoria della Familiaris Consortio suggerisce qualche pensiero di approfondimento applicabile alla relazione di coppia (e non solo).

    I frutti (doni) della pianta sono quindi la fase finale visibile del comportamento della pianta operato dalle sue radici invisibili. I frutti sono belli a vedersi, buoni, attraenti, desiderabili. Quindi la pianta si è comportata bene.

   Allo stesso modo dovrebbe avvenire per il comportamento umano. Esso è, o dovrebbe essere, la fase visibile e manifesta di tutto un processo nascosto operato dall’anima ben radicata in Dio.

   Questa esortazione a “comportarsi bene” sale così di livello facendoci concludere che i “buoni comportamenti” sono quelli improntati a: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.

   In concreto accadrebbe così: se i frutti dello Spirito sono comandamento di vita è come se lo Spirito ci comandasse di comportarci bene e non male, ci comandasse di non voler avere (cogliere) frettolosamente un frutto perché bello, desiderabile, attraente (come fece Eva complice il succube Adamo) bensì di esserlo. Ricorda un aforisma: “Amare è avere fame insieme e non mangiarsi l’un l’altro”.

   Essere frutto significa pertanto comportarsi con:

  • AMORE: preferisco riceverlo o anche darlo, senza farlo pesare?
  • GIOIA: mi impegno a tradurre in sorriso l’amore che dico di avere, evitando

            sospiri e lamentazioni?

  • PACE: cerco di essere persona di pace evitando guerriglie domestiche?
  • PAZIENZA: so attendere i tempi di Dio senza bruciarmi in nervosismi?
  • BENEVOLENZA: so volere il bene degli altri – e il mio . senza presunzione?
  • BONTA’: so essere “frutto buone”, quindi amabile, facilitando di amarmi?
  • FEDELTA’: so mantenere le promesse fatte, costi quel che costi?
  • MITEZZA: come sono  messo con comportamenti arroganti, prepotenti?
  • DOMINIO DI SE’: so tenere in armonia corpo e spirito moderando impulsi?

   Può essere giovevole ricordare come anche i VIZI CAPITALI  fossero in origine in numero di 9 (ridotti non si sa come a 7): superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia a cui andrebbero aggiunti paura e menzogna.

   Ecco quindi la drammatica partita a ping pong tra i  9 comportamenti buoni

(graditi a Dio) e i 9 comportamenti pessimi (graditi a Satana).

   Da non dimenticare che proprio l’invidia è il vizio principe (“Per invidia del diavolo entrò il male nel mondo” , come annotano la Sapienza e San Paolo).

   L’invidia ha mille volti e si camuffa a tal punto da risultare difficile riconoscerla. Essa consiste essenzialmente nel non essere contenti o appagati di quello che si è e di quello che la vita ci offre e di irritarsi della contentezza o della situazione esistenziale degli altri, considerata sempre migliore.

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