FELICITA’…MATURITÀ’
(Alessandro D’Avenia sul Corriere della Sera del 17 settembre 2018)
Amo restaurare le parole con le crepe, prima che vadano in frantumi. Sono perciò partito dalla parola “felicità” dicendo loro che è sinonimo di “maturo”. Non ci credevano. “Felix”, in latino, indicava semplicemente l’albero che da frutto (la radice è la stessa di “fecondo”): “arbor felix” era per il contadino l’albero che porta frutti buoni, pronti per essere imbanditi in tavola o usati per nuove seminagioni. L’albero felice è l’albero fertile, nutre e dà altre piante. La parola “felice” occupa la prima pagine dei libri di psicologia come motore della vita umana. E, a conti fatti, i due ambiti che consentono di definirci di renderci felici sono la costruzione di relazioni autentiche e la realizzazione delle proprie attitudini nella vita, non solo professionale. (…)
A questo punto era arrivato il momento di passare al termine “maturo”, perché l’albero felice dà frutti maturi, né acerbi, né marci. La parola “maturo” ha una storia affascinante, ed è l’orizzonte che presento ai miei studenti per liberarli dall’ansia degli esami e aiutarli a concentrarsi sull’essenziale che servirà ad affrontarlo, indipendente dal risultato.
Maturo è imparentato con: mattutino, (do)mani), mese… parole derivanti da una radice e che indicava il misurare e che si utilizzava per le cose del grande misuratore: il tempo.
Per questo “maturo” indica propriamente: “ciò che arriva a tempo, di buon’ora, e quindi a perfezione, a compimento, detto soprattutto di frutti o messi, nel giusto accordo con le stagioni”.(…)
La storia della parola ci obbliga a spostare la nostra attenzione dalla statica (maturità) alla dinamica vitale (maturazione).
Chi è “maturo”? Colui che arriva per tempo, quindi la maturazione non è compatibile con la pigrizia o con la fretta: i frutti maturano nella stagione giusta e nelle precedenti si preparano; maturo è colui che arriva a compimento, quindi bisogna aver chiaro quali aspetti della propria persona occorre curare perché diano il frutto atteso; maturo è colui che sa misurare i fenomeni, ed è quindi capace di affrontare la realtà a partire da una presa di posizione radicata – senza radicalismo – sul mondo, per non lasciarsi trasportare dai venti emotivi e nei luoghi comuni. Maturo, insomma, è chi misura e si misura con la realtà. Per questo ho ripreso le parole con cui Enrico V, nell’omonima opera shakesperiana incita i soldati. Le condizioni sono avverse, i nemici molto più numerosi. Il re Enrico vince la loro paura ribadendo che non vuole un solo uomo in più, perché la vittoria è da un’altra parte: “Quando l’anima è pronta, lo sono anche le cose”. Per me è il motto per l’anno della maturazione e della maturità, l’opposto di chi ci dice di affrontare le cose solo quando ci sentiamo sicuri di poter avere successo: “quando le cose sono pronte allora anche l’animo lo sarà”.
E’ questo l’alibi che imprigiona il senso dell’avventura proprio del giovane, la cui maturazione può avvenire solo con il coraggio di uscire da se stesso e rischiare la vita, affrontando il vuoto che ogni scelta comporta: “avventura” viene da “ad – ventura”, le cose che accadranno, per le nostre scelte, senza che possiamo controllarne l’esito.
Abbiamo barattato l’avventura con l’ossessione per la “sicurezza”, fonte di paura che porta a rifugiarsi in copioni dettati da altri, pur di non fallire.
Così il “successo” (risultato) ha sostituito il “processo” (vita); ci si impegna per qualcosa se è facile, comodo o garantito. Esattamente il contrario di ciò che fa il seme per maturare, cioè uscire da sé, per dare un giorno i frutti scritti nel suo stesso innato dinamismo.
Il corpo e il cervello di un adolescente condividono questo slancio che si esaurisce intorno ai 20 anni. (…)
La scelta di lasciare casa, inaugurare un lavoro, costruire un proprio nucleo familiare, è frutto della spinta naturale a dar vita al nuovo, vincendo la seduzione della sicurezza che preferisce “im – plorare” (piangere perchè la realtà non ci soddisfa) a “es – plorare” (misurarsi con la realtà facendo scelte coraggiose). (…)
Gli educatori sono quindi giardinieri che mettono il seme in condizione di maturare, e poi potano, non per mortificare, ma per concentrare la linfa, che un giorno renderà “felix” l’albero: fecondo.
Tante crisi di felicità sono crisi di infecondità esistenziale.
Ho pensato che, avendo modo, nel servizio consulenziale, di incontrare persone alle prese con problemi interiori (di carattere psichico o spirituale) di infelicità, di insoddisfazione, di adolescenzialità cronica… questa considerazioni possano essere applicabili per essere di aiuto. (Gigi)
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